ARCO IUS

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16/11/05

Trib. Milano, sent. 546/06

BOND ARGENTINI

Tribunale di Milano 16 novembre 2005.
SENTENZA N° 546/2006
R. G. N. 2939/2004
omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 13/1/04 secondo il rito ordinario V. A. conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Milano la Banca *** (da ora **) per sentir dichiarare nullo e/o annullabile l’acquisto di obbligazioni Argentina 10% 97/07 acquistate in data 5/12/96 presso la Banca ** per il corrispettivo importo di £. 2.100.000.000.A sostegno della domanda l’attrice imputava alla Banca una serie di inadempimenti agli obblighi statuiti dal TUF e dai Regolamenti attuativi con riferimento alla negoziazione di cui trattasi che assumeva aver riguardato l’intero capitale di cui disponeva.La Banca si costituiva in giudizio eccependo in via pregiudiziale la mancata instaurazione del giudizio secondo le forme previste dal D.Lgs 5/2003 e contestando nel merito il fondamento delle avverse pretese e deduzioni.Il G.I., con provvedimento 10/6/2004, disponeva il mutamento del rito e la conseguente cancellazione della causa dal ruolo.Riassunto il giudizio ed instauratosi il contraddittorio, a seguito di istanza di fissazione di udienza, il Giudice relatore provvedeva come da decreto 22/3/05.Il Collegio, all’esito della discussione orale, con ordinanza depositata in data 1/7/2004, dopo aver effettuato una serie di premesse in diritto, ammetteva alcune delle prove orali dedotte dalla difesa attrice, ritenendo tuttavia inaccoglibile l’istanza di esibizione della offering circular relativa ai titoli di cui è causa perchè riferita ad una prospettazione (conflitto di interessi da collocamento) tardivamente dedotta.All’esito della espletata istruttoria, condotta dal Giudice relatore, la causa veniva nuovamente rimessa al Collegio avanti al quale i procuratori delle parti procedevano ad un’ulteriore discussione.Il Collegio si riservava di decidere.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Contrariamente a quanto in limine affermato dalla difesa attrice esiste ed è stato prodotto agli atti (cfr. doc. 2 di parte convenuta) il contratto di negoziazione (cd. master agreement).Al momento della conclusione di tale accordo (8/2/95) vigeva la L. n. 1/91 che. all’art. 6 comma 1 lett. c) prevedeva, appunto, che i rapporti con i clienti dovessero rivestire forma scritta.La negoziazione dei titoli di cui è causa è invece avvenuta in data 5/12/96 e dunque nel vigore del D.Lgs n. 415/96 (cd. decreto Eurosim) il quale (cfr. art. 66) ha pressocchè interamente abrogato la precedente normativa sostituendosi ad essa.Le norme del TUF invocate dalla difesa attrice alle pagg. 8 e ss. del proprio atto di citazione devono stimarsi pertanto del tutto inconferenti nella specie in quanto appartenenti ad un impianto normativo intervenuto successivamente ai fatti di causa (D. Lgs n. 58/98).Purtuttavia i principi generali di diligenza, correttezza, trasparenza, nonchè gli obblighi informativi e, segnatamente, la gestione dei conflitti di interesse non sono una novità del TUF che ha solo ridisegnato in modo più organico, ed in armonia con gli orientamenti comunitari e internazionali, un impianto normativo già sufficientemente completo nelle sue principali componenti (cfr. art. 6 L. n. 1/91 e art. 17 Dlg. 415/96).Ciò posto, e considerato che in tutte le disposizioni normative susseguitesi nel tempo sino all’attuale TUF il principio cardine a presidio della tutela dell’investitore è costituito dagli obblighi informativi, giova preliminarmente soffermarsi sull’argomento, non senza evidenziare che la verifica di tali adempimenti deve essere condotta in riferimento al singolo prodotto finanziario di cui si discute e contestualizzata al tempo della sua negoziazione.La vicenda che ci occupa è temporalmente collocata nel dicembre dell’anno 1996, e quindi in un’epoca di molto precedente all’abbassamento del rating del debito pubblico del paese Argentina, comunicato in modo pressocchè contestuale da Standard & Poor’s e Moody’s negli ultimi giorni di marzo 2001.Il rating che le principali agenzie internazionali (Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch) avevano accordato alle obbligazioni argentine è stato, dal 1997 a quasi tutto l’anno 1999, “BB” (la migliore delle categorie speculative) mentre nell’ottobre 1999 è divenne “BB-“ (sempre, seppure con un lieve peggioramento, nell’ambito delle migliori categorie speculative).Solo a decorrere dal marzo 2001, e dunque a distanza di oltre quattro anni dall’acquisto effettuato dall’attrice, le agenzie declassarono il rating delle obbligazioni della Repubblica Argentina da “BB-“ a “B+” evidenziando l’accresciuta vulnerabilità dei titoli connessa alle avverse condizioni economiche, finanziarie e settoriali del Paese), sino a giungere, con ulteriori declassamenti, alla categoria “D” : default.Non può dunque imputarsi alla Banca convenuta di avere omesso di riferire notizie sulla “inaffidabilità” del titolo o su futuri sviluppi della politica economica di uno stato estero poichè tali informazioni non erano al momento disponibili presso gli analisti del settore.Quanto alla omessa informazione in ordine alla progressiva perdita di valore del titolo (cfr. citazione, pag. 10) deve rilevarsi che nessun obbligo informativo grava sull’intermediario nelle ipotesi di mera negoziazione e che la norma invocata dalla difesa attrice (che peraltro appartiene ad un Regolamento attuativo successivo al TUF e dunque inapplicabile ai fatti di causa ), riguarda il patrimonio affidato nell’ambito di una “gestione”: fattispecie del tutto estranea al caso in esame.La difesa attrice lamenta altresì la mancata consegna da parte della Banca del “prospetto” informativo relativo alle obbligazioni di cui è causa (cfr. citazione, pag. 10)Sul punto si ritiene necessaria una premessa.I prestiti obbligazionari della Repubblica Argentina sono stati emessi sull’Euromercato e sono stati assunti, inizialmente, “a fermo” da investitori istituzionali (per i quali sussiste l’esenzione ex art. 100 T.U.F., comma a, in ordine al “prospetto”) e quindi venduti ad altri intermediari e a soggetti privati.La cessione delle obbligazioni a investitori istituzionali esaurisce la fase del collocamento.Successivamente, le obbligazioni divengono negoziabili sul mercato secondario (regolamentato e/o non regolamentato) senza che sia prevista la consegna del prospetto informativo.Nè può dirsi nella specie sussistente una ipotesi di “sollecitazione” all’investimento posto che per aversi “sollecitazione” al pubblico occorre ravvisare (si è così pronunciata la Consob nella audizione 27/4/2004 alla Camera dei Deputati- Commissione Finanze):- lo svolgimento di una attività di tipo promozionale qualificabile come “offerta”, “invito ad offrire” o “messaggio di tipo promozionale”- la sussistenza di un pubblico indifferenziato di soggetti (offerta ad incertam personam)- l’adozione di modalità uniformi e standardizzateAttesa l’insussistenza di tali presupposti, Banca ** non aveva l’obbligo di rilasciare alcun prospetto informativo relativamente ai titoli di cui è causa.Le ulteriori e più interessanti problematiche relative alla violazione dei precetti contenuti nella “offering circular” ed alla negoziazione sul “grey market” risultano invece tardive perchè dedotte per la prima volta in comparsa conclusionale.In ogni caso non può essere accolta la domanda di annullamento in quanto, come già osservato nella ordinanza collegiale resa all’esito della prima udienza di discussione, non sono stati minimamte dedotti i presupposti su cui si fonda tale rimedio (essenzialità e riconoscibilità del preteso vizio del consenso) e neppure può trovare ingresso la domanda di nullità per le ragioni di seguito esposte.Ed invero, in ossequio al generale ed indefettibile principio di legalità (e, non di meno, di certezza del diritto) non appare lecito il ricorso indiscriminato alla sanzione della nullità, che costituisce il più severo rimedio civilistico, nei casi di violazione di norme comportamentali generali (di diligenza, correttezza, trasparenza, indipendenza, equità ...) che, in quanto prive di specificità, non risultano idonee ad individuare precise regole di comportamento cui unifomare la condotta dell’agente.Come già osservato da questo Tribunale in una recente sentenza, la voluta distinzione fra adempimenti prescritti a pena nullità ed altri obbligi di comportamento pure posti a carico dell’intermediario, impedisce una generalizzata qualificazione di tutta la disciplina dell’intermediazione mobiliare come di ordine pubblico e, ultimamente, presidiata dalla c.d. nullità virtuale di cui all’art. 1418 1° comma c.c. (cfr. sentenza n. 555/05 Pres. Est. Vanoni).Peraltro, non può sottacersi in proposito che la nota sentenza della Suprema Corte che ha felicemente inaugurato il tema delle “nullità virtuali” (cfr. Cass. 7/3/01 n. 3272) è stata emessa con riferimento ad una vicenda peculiare concernente l’esercizio della attività di intermediazione posta in essere da un “intermediario abusivo” e dunque in una fattispecie del tutto estranea a quella relativa agli obblighi informativi previsti dalla legislazione in materia.Da ultimo soccorre al diverso inquadramento delle fattispecie di violazione degli obblighi comportamentali l’argomento letterale desumibile dall’art. 18, comma 5 della L. n. 415/96 e dall’attuale art. 23 comma 6 del D.Lgs. n. 58/98 laddove l’inversione dell’onere probatorio viene riferito ai “giudizi di risarcimento dei danni cagionati ai clienti nello svolgimento dei servizi” (previsti dal decreto) ed è noto che il rimedio riasarcitorio non appartiene alla categoria delle nullità , che prevedeno, invero, l’effetti restitutori.Appare per contro più appropriato, ad avviso di questo Tribunale, applicare alle fattispecie di violazione delle norme comportamentali poste a carico degli intermediari finanziari (per le quali non sia stata espressamente prevista dal legislatore la sanzione della nullità) i generali principi in tema di inadempimento.Il Giudice, nell’esaminare i comportamenti tenuti dagli intermediari nelle singole fattispecie, potrà e dovrà valutare l’importanza dell’inadempimento dedotto dall’investitore, sia ai fini della condanna al risarcimento dei danni, sia ai fini della eventuale risoluzione del contratto, quando le violazioni commesse risulteranno di gravità tale da compromettere del tutto l’equilibrio del rapporto negoziale, ovvero quando, pur prescindendo dal singolo rapporto obbligatorio con l’investitore teso alla tutela del soddisfacimento del suo interesse individuale, ledono il prioritario principio della integrità del mercato.Risoluzione che, quoad effectum, si risolverà, al pari della nullità, per la sua efficacia retroattiva, nell’obbligo restitutorio.La Corte di legittimità ha significatamente rammentato come l’art. 1455 c.c. riconduca la sanzione di scioglimento del vincolo contrattuale ad una “regola di proporzionalità in virtù della quale la risoluzione del vincolo contrattuale è legislativamente collegata all’inadempimento di obbligazioni che abbiano notevole rilevanza nella economia del rapporto, avuto riguardo sia all’esigenza di mantenere l’equilibrio fra prestazioni di uguale importanza nei contratti con prestazioni corrispettive, sia all’interesse dell’altra parte che non deve essere tanto inteso in senso subbiettivo, in relazione alla stima che il creditore abbia potuto fare del proprio interesse violato, quanto in senso obiettivo, in relazione all’attitudine dell’inadempimento a turbare l’equilibrio contrattuale e a reagire sulla causa del conatrtto, e perciò sul comune intento negoziale” (così, ex plurimis, Cass. n. 5277/85).Inoltre il Giudice, dopo avere valutato l’importanza dell’inadempimento, non potrà prescindere dall’esame della entità del pregiudizio sofferto, dall’eventuale concorso di colpa del creditore (art. 1227 c.c.) e, soprattutto, dalla verifica del nesso eziologico fra inadempimento e danno in ordine al quale non può dirsi invertito l’onere della prova ai sensi dell’art. 18 comma 5 L. n. 415/96 e 23 comma 6 del T.U.F.Dovrà in particolare l’investitore provare che il danno patito è conseguenza immediata e diretta della condotta colposa dell’intermediario (ad es.dell’obbligo di informazione che assume violato) e non, semplicemente, dell’andamento sfavorevole del mercato.Nè varrebbe obiettare che, in tale prospettiva, l’inadempimento sarebbe riferito non già alle prestazioni nascenti da un contratto validamente concluso, ma con riferimento agli obblighi di informazione che devono precedere l’incontro di volontà (c.d. momento genetico del rapporto).Nessuno ostacolo si pone, infatti, nel considerare l’inadempimento in riferimento agli obblighi assunti dall’intermediario finanziario con il contratto di negoziazione (c.d. contratto quadro) quale fonte primaria degli obblighi comportamentali previsti in tema di intermediazione finanziaria e quale fonte regolatrice dei successivi rapporti.Tornando ora all’esame delle censure mosse dalla difesa attrice in ordine al comportamento tenuto dall’intermediario apprezzabile e condivisibile la doglianza concernente la non segnalata “inadeguatezza” dell’operazione di cui trattasi.Ed invero, se da un canto l’obbligo di informazione non può dirsi omesso secondo la prospettazione della difesa attrice (perchè nel 1996 il “rischio Paese” era assolutamente inapprezzabile dagli operatori economici ) e se d’altro canto difetta un sicuro nesso eziologico fra la carente informazione ed il danno da default (perchè una più compiuta descrizione sulla tipologia dello strumento finanziario, resa alla luce dei dati allora disponibili, non avrebbe ragionevolmente dissuaso l’attrice dalla scelta operata) nondimeno appare gravemente violato l’obbligo, pure posto a carico dell’intermediario, di segnalare l’inadeguatezza della operazione e di sconsigliarne la effettuazione.La Banca convenuta non ha contestato l’assunto secondo cui l’intero patrimonio liquido della attrice è stato investito in obbligazioni Argentina e per il rilevante importo di vecchie £. 2.100.000.000.L’art. 6 della L. n. 1/91 alla lett. f) espressamente prevedeva che le società di intermediazione mobiliare, nello svolgimento delle loro attività, “non devono consigliare o effettuare operazioni con frequenza non necessaria o consigliare o effettuare operazioni di dimensioni eccessive in rapporto alla situazione finanziaria del cliente “Il successivo DLgs. 415/96, all’art. 17, non ripropone esplicitamente la questione di adeguatezza, purtuttavia prescrive, alla lett e), lo svolgimento di una “gestione indipendente, sana e prudente” e l’adozione di “misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sugli strumenti finanziari e sul denaro affidati”.Inoltre, le disposizioni contenute nella precedente normativa (L. 1/91) ancorchè abrogate o sostituite , continuarono ad essere applicabili proprio alla stregua dell’art. 67 della citata legge, in quanto compatibili con la disciplina comunitaria e con le norma del nuovo decreto, sino all’entrata in vigore dei provvedimenti emanati nelle corrispondenti materie.Da ultimo, e al solo fine di evidenziare la centralità del requisito della adeguatezza (essendo la disposizione temporalmente successiva ai fatti di causa e dunque inapplicabile alla fattispecie in esame), si rammenta che l’art. 29 Reg. Consob n. 11522/99 attuativo del TUF prevede espressamente al comma 1: “Gli intermediari autorizzati si astengono dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione”; e al comma 3: “Gli intermediari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione, gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine impartito per iscritto, ovvero, di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute”.L’intermediario non ha dimostrato di aver segnalato l’inadeguatezza dell’investimento che, si ribadisce, ha impegnato l’intero patrimonio della attrice.L’avvertimento non risulta dall’ordine e la circostanza non può ritenersi provata alla stregua del generico contenuto del quarto capitolo articolato dalla difesa convenuta e comunque non acclarata dalla testimonianza raccolta nel corso della istruttoria.Sul punto, anzi, il sig. V. ha affermato “ non sapevo, e per lungo tempo non ho saputo, che si trattava dell’intero patrimonio della signora”.E il comportamento della banca risulta tanto più negligente e imprudente quanto più si consideri che neppure in occasione della telefonata di cui hanno riferito i testi escussi (le versioni fra teste di parte attrice e di parte convenuta sono sul punto assolutamente coincidenti) l’attrice venne consigliata di vendere i titoli al fine di alleggerire l’esposizione e procedere ad una più prudente diversificazione dell’investimento.Giova evidenziare in proposito quanto riferito dallo stesso teste di parte convenuta circa lo stato d’animo della V. “la signora era molto allarmata, direi angosciata” allorchè, nell’estate del 2001, iniziarono a circolare le prime notizie sulla crisi argentina.Ritiene conclusivamente il Tribunale che sussista un inadempimento colpevole della Banca convenuta in riferimento alla vicenda in esame, non tale da giustifiare la risoluzione del contratto (domanda, peraltro, non proposta), ma certamente idonea a fondare la pretesa risarcitoria.Per la quantificazione del danno si dispone consulenza tecnica, rimettendo la causa in istruttoria come da separata ordinanza.Spese al definitivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, non definitivamente pronunciando sulle domande proposte, rigetta la domanda di nullità e di annullamento formulate dall’attrice e relativamente alla domanda risarcitoria parimenti proposta dispone la rimessione della causa sul ruolo come da separata ordinanza.
Spese al definitivo.

03/11/05

Tribunale di Lecce, Sentenza 46/2005

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice Onorario del Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di CampiSalentina - Avv. Gabriella Nocera ha pronunciato la seguente
SENTENZA n. 46/2005
Nel procedimento civile contrassegnato con il n. 5083/1999 R.G. avente per oggetto: "Invalidità e/o nullità parziale contratto di conto corrente" Promosso da:Cosimo P. e Maria Rosaria P., rappresentati e difesi dagliAvv.ti Ernesto LEGANZA ed Antonio TANZA,nei confronti diIntesa Gestione Crediti S.p.a. (già IntesaBCI Gestione Crediti S.p.a.), in qualità di procuratore di Banca Intesa S.p.a. (già Banca Intesa Banca Commerciale Italiana Spa), rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Giorgio COSTANTINOnonchèIntesa Gestione Crediti S.p.a. (già Intesa Gestione Crediti SPA, già Cassa di Risparmio Salernitana Spa) in qualità di successore a titolo particolare della Banca Intesa Spa (già "Cariplo - Cassa delle Province Lombarde S.p.a."), rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Giorgio COSTANTINO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con Atto di Citazione del 12 novembre 1999, notificato il 22 novembre 1999, P. Cosimo e P. Maria Rosaria convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Campi Salentina, la CARIPLO S.p.a, in persona del legale rappresentante pro tempore, per sentir dichiarare l'invalidità e la nullità parziale dei singoli contratti di apertura di credito, sconto e conto corrente, oggetto del rapporto tra essi attori e la banca, particolarmente in relazione alle clausole di determinazione del tasso delle CMS delle valute, dell'anatocismo, dei costi, delle competenze e remunerazioni a qualsiasi titolo pretese e, di conseguenza, ridurre l'eventuale credito bancario in base ai risultati del ricalcalo da effettuarsi a mezzo di CTU tecnico - bancaria e sulla base dell'intera documentazione relativa al rapporto di apertura di credito; determinare a mezzo di CTU il Costo Effettivo Annuo degli impugnati rapporti bancari, nonché il T.E.G., e, in virtù dell'invalidità delle convenzioni contrattuali, ricalcolare l'ammontare delle somme a credito ed a debito delle parti (cliente - banca) sulla base dell'intera documentazione (dalla formalizzazione negoziale ad oggi) e determinare l'esatto dare - avere tra le parti, condannando, nell'ipotesi di indebito pagamento di somme da parte attrice, la banca alla restituzione delle somme indebitamente riscosse, oltre interessi legali maturati dalla data della riscossione; condannare la banca al risarcimento dei danni subiti da esso P. a seguito della illegittima segnalazione alla Centrale rischi presso la Banca d'Italia del rischio a sofferenza e falsamente quantificato; condannare, infine, la parte soccombente al pagamento delle spese e competenze di giudizio a favore del procuratore anticipatario. All'udienza del 2 febbraio 2000, si costituiva in giudizio Intesa Gestione Crediti S.p.a. (già Cassa di Risparmio Salernitana S.p.a.), in qualità di procuratore della CARIPLO S.p.a., che chiedeva il rigetto delle domande proposte dai coniugi P. - P. nei confronti della CARIPLO S.p.a., con conseguente condanna degli attori al pagamento delle spese e competenze di giudizio. All'udienza del 29 maggio 2001, il processo veniva interrotto per fusione per incorporazione della CARIPLO S.p.a. in Banca Intesa S.p.a.. Con ricorso datato 4 giugno 2001, il giudizio veniva riassunto dagli attori nei confronti della Banca Intesa Banca Commerciale Italiana S.p.a. (nuova denominazione assunta da Banca Intesa S.p.a. nelle more del giudizio interrotto). Con decreto del 2 luglio 2001 il Giudice, visto l'art. 303 c.p.c., fissava l'udienza del 12 marzo 2002 per la prosecuzione del giudizio e per il giuramento del CTU, nominato col medesimo decreto. A detta udienza si costituiva con Comparsa di Costituzione e Atto di Intervento IntesaBCI Gestione Crediti S.p.a., sia in qualità di procuratore di Banca Intesa Banca Commerciale Italiana S.p.a., sia in qualità di successore a titolo particolare della CARIPLO S.p.a., reiterando tutte le domande già formulate con la comparsa di costituzione e con tutti i successivi scritti difensivi, insistendo per l'integrale rigetto delle domande ex adverso proposte. Il Giudice rinviava la causa all'udienza del 14 maggio 2002 per il conferimento dell'incarico alla Dott.ssa Cinzia FRASSANITO e la formulazione dei quesiti. Il CTU depositava la propria relazione. Precisate, poi, le conclusioni, la causa veniva infine trattenuta per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il presente giudizio prende l'avvio dalla contestazione dal contratto regolante il rapporto di apertura di credito con affidamento mediante scopertura su c/c n. 01/0523 sorto in data 3 marzo 1981, e che presentava, alla data del 30 marzo 1999 un saldo passivo pari a lire 41.334.623. In breve, gli attori contestavano alcune voci del predetto conto che, a loro dire, nonostante i numerosi pagamenti alla banca, avevano fatto lievitare l'esposizione debitoria. In particolare si contestava l'applicazione di interessi ultralegali in assenza di previsione scritta e determinata, di voci di spesa quali la commissione di massimo scoperto, non dovute, di un criterio diverso e più svantaggioso per il cliente per il calcolo dei giorni valuta e della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; anch'essa ritenuta contraria al divieto normativo dell'anatocismo. Orbene, l'esame delle innumerevoli questioni, sollevate e trattate da entrambe le parti in causa non può prescindere dalla verifica della fondatezza delle questioni preliminari sollevate dalla banca convenuta. Sull'istanza di riunione del presente giudizio con quello di opposizione a decreto ingiuntivo pendente innanzi al Tribunale di Lecce (n. 2855/00 R.G.). Si rileva che la banca convenuta, per la prima volta in Comparsa Conclusionale, ha richiesto la riunione ex art. 274 c.p.c., ovvero in subordine la sospensione ex art. 295 c.p.c., del presente giudizio ad altro giudizio contrassegnato dal n. pendente dinanzi al Tribunale di Lecce n. 2855/00 R.G, sul rilievo che tale giudizio avrebbe per oggetto il credito già oggetto di contestazione del presente giudizio. In particolare, asserisce la necessità di procedere alla riunione dei due giudizi, in ragione della pacifica sussistenza di una connessione per l'oggetto e per il titolo tra i due; e dell'eccezione di passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti degli odierni attori per il medesimo credito oggetto di contestazione (questione, questa, che, in tale sede, non può trovare trattazione). Tale richiesta non può trovare accoglimento per varie ragioni. Innanzitutto, ai sensi dell'art. 274 c.p.c., la riunione può disporsi solo ed esclusivamente nel caso di più procedimenti relativi a cause connesse. A parte la considerazione che, ai sensi del II comma dell'art. 40 c.p.c., la connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza (il giudizio pendente dinanzi ad altro giudice è già ben oltre la prima udienza di trattazione), e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e la decisione delle cause connesse (e nel caso che ci occupa la causa principale pendente dinanzi a codesto Tribunale, già introitata per la decisione non consentirebbe l'esauriente trattazione e decisione della causa connessa), si rileva altresì che la litispendenza presuppone che tra i vari giudizi esista identità, oltre che di persone e di petitum, anche di causa petendi (cfr. Cass. Civile, 25 giugno 1983, n. 4371). E sulla diversità del petitum e della causa petendi non v'è dubbio: il giudizio odierno ha ad oggetto azione di accertamento negativo del credito della banca e di declaratoria di nullità parziale del contratto di conto corrente n. 01/0523 per invalidità di talune clausole di esso; il giudizio n. 2855/00 RG (successivo al presente giudizio e instaurato gia in pendenza dello stesso) ha per oggetto, come è noto, opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 4838/00. Sull'istanza di sospensione del presente giudizio, in attesa della definizione di quello di opposizione a decreto ingiuntivo, pendente dinanzi al Tribunale di Lecce (n. 2855/00 RG). Non può essere accolta la richiesta avanzata dalla banca di sospensione del presente giudizio in attesa dell'altro (peraltro iniziato successivamente). Ai sensi dell'art. 295 c.p.c., la sospensione del giudizio è necessaria soltanto quando la previa definizione di altra controversia civile, penale o amministrativa, pendete davanti allo stesso o ad altro giudice, sia imposta da una espressa disposizione di legge ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile antecedente logico - giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato (cfr. Cassazione Civile Sezioni Unite, 11 aprile 1994, n. 3354; Cassazione Civile, Sez. III, 12 maggio 2003, n. 7195; Cassazione Civile, 22 febbraio 1994, n. 179; Cassazione Civile, 19 ottobre 1993, n. 1043). Per quanto sopra detto, non può trovare accoglimento la richiesta della banca, non ricorrendo alcuna pregiudizialtà.Sull'eccezione di inammissibilità della domanda di restituzione delle somme proposta dagli attori nei confronti dell'Intesa Gestione Crediti S.p.a.- Si ritiene che detta eccezione non possa trovare accoglimento. Invero: con atto di citazione Cosimo P. e Maria Rosaria P. citavano in giudizio la CARIPLO S.p.a. (subentrata per fusione alla Caripuglia S.p.a.), titolare del rapporto di conto corrente, al fine di sentir dichiarare l'invalidità e nullità parziale del contratto regolante il rapporto di apercredito, e previa determinazione, a mezzo di CTU, dell'esatto dare - avere tra le parti, sentir condannare, tra l'altro, nell'ipotesi di indebito pagamento di somme da parte attrice, la banca alla restituzione delle somme indebitamente riscosse. Si costituiva in giudizio Intesa Gestione Crediti S.p.a. in qualità di procuratore della CARIPLO S.p.a.. All'udienza del 29 maggio 2001, il procuratore della Banca chiedeva dichiararsi l'interruzione del processo, essendo intervenuta l'estinzione della Cariplo S.p.a. a seguito della fusione per incorporazione del 30 dicembre 2000 nella banca Intesa S.p.a.. Gli attori provvedevano alla riassunzione della causa nei confronti della Banca Intesa Banca Commerciale Italiana S.p.a., nuova denominazione, questa, assunta dalla Banca Intesa nelle more del giudizio interrotto, riproponendo nei confronti della stessa tutte le domande contenute nell'atto introduttivo. Con comparsa di costituzione e atto di intervento si costituiva sia in qualità di procuratore di Banca Intesa Banca Commerciale Italiana S.p.a. (nella quale si era fusa per incorporazione la CARIPLO S.p.a.), sia in qualità di successore a titolo particolare della CARIPLO S.p.a., IntesaBCI Gestione Crediti S.p.a. (che nel corso del giudizio modificava ancora la propria denominazione fino all'attuale Intesa Gestione Crediti S.p.a.), denominazione, questa, che si evince dalla comparsa conclusionale. Orbene, se è pur vero che IntesaBCI Gestione Crediti S.p.a. (oggi Intesa Gestione Crediti S.p.a.) interveniva nel giudizio interrotto in qualità di successore a titolo particolare della CARIPLO S.p.a., con le evidenti conseguenze di cui all'art. 111, I comma, c.p.c., e altresì indiscutibile che gli attori correttamente proponevano ricorso in riassunzione per processo interrotto nei confronti della Banca Intesa Banca Commerciale Italiana S.p.a. (ora Banca Intesa S.p.a.), nella quale, per stessa ammissione della convenuta, si era fusa per incorporazione la CARIPLO S.p.a.. Non v'è dubbio che per effetto della su indicata fusione vi sia, ai sensi dell'art. 2501 c.c., una successione universale corrispondente alla successione universale "mortis causa" e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi (anche processuali), della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti (fusi o) incorporati. Consegue che ogni atto di natura sostanziale o processuale dev'essere diretto nei confronti del nuovo ente che è l'unico e diretto obbligato per i debiti dei soggetti definitivamente estinti per effetto della fusione (Cassazione Civile, Sez. I, 22 settembre 1997, n. 9349). La corretta riassunzione del giudizio nei confronti del successore a titolo universale della CARIPLO S.p.a. (oggi Banca Intesa S.p.a.) regolarmente costituitasi a mezzo del procuratore Intesa Gestione Crediti S.p.a. determina in capo a questa, "titolare passiva" del rapporto de quo, l'obbligo al pagamento della somma evidenziata dalla CTU, ed in capo ad Intesa Gestione Crediti S.p.a., titolare attiva del rapporto e presunta creditrice degli attori, al pagamento dei danni, per aver segnalato il P. e la P. alla Centrale dei Rischi presso la Banca d'Italia per un debito inesistente.Natura ed effetti della comunicazione dell'8 settembre 1999.Non può essere condiviso l'assunto della banca secondo cui la comunicazione dell'8 settembre 1999 assumerebbe il carattere di una vera e propria confessione. Occorre innanzitutto rilevare come tale comunicazione faceva seguito a tre precedenti missive (21 aprile 1999; 23 luglio 1999 e 8 settembre 1999) inviate dalla banca agli attori, con le quali si invitavano gli stessi a provvedere all'estinzione della esposizione rinveniente dal conto n. 01/0523, avvertendo che in difetto si sarebbe dato corso agli atti giudiziali. Nella nota dell'8 settembre 1999 è dato leggere: "Il sottoscritto Cosimo P., con riferimento al c.c. bancario indicato in oggetto, alla corrispondenza del 30 luglio u.s. (con la quale avete disposto il recesso dagli affidamenti) ed alla nota dell'8 settembre successivo, comunica di essere disponibile a provvedere al completo pagamento delle somme dovute a codesto Istituto entro il termine di 18 mesi mediante versamenti rateali mensili". E' pacifico che tale dichiarazione seguì all'intimazione della Banca stessa di ripiano della posizione debitoria per il citato importo con l'avvertimento che, in difetto, sarebbero state avviate azioni legali. Nessuna confessione può nella stessa ravvisarsi, collocandosi piuttosto tale dichiarazione nell'ambito dell'art. 1988 c.c., che disciplina la promessa di pagamento e la ricognizione di debito. Orbene per Giurisprudenza costante (Cassazione Civile, 2 luglio 1987, n. 5776, Cassazione Civile, Sez. Lavoro, 23 gennaio 1997, n. 712), a cui tra l'altro questo Giudice ritiene di uniformarsi, atteso altresì l'orientamento della Corte d'Appello di Lecce (Corte d'Appello di Lecce, 22 ottobre 2004), le dichiarazioni rese da una parte all'altra in sede transattiva non integrano confessioni, per mancanza di "animus confitendi" (intenzione cioè di ammettere un fatto sfavorevole al dichiarante) ed essendo invece strumentali al proposito di evitare la lite attraverso reciproche concessioni. La predetta comunicazione si sostanzia pertanto in una semplice asserzione di debito (e naturalmente in una proposta in ordine alle modalità di pagamento), integrando una semplice dichiarazione di volontà del P., con la quale indirettamente assume di essere debitore, e non certo di scienza. Ne consegue che, concretando al scrittura dell'8 settembre 1999 una ricognizione di debito, va escluso che essa costituisca fonte di obbligazioni nuove ed autonome, dovendosi attribuirle valore meramente confermativo di un preesistente rapporto fondamentale con il limitato effetto di dispensare colui a favore del quale è stata emessa dall'onere di fornire la prova e di porre a carico della controparte l'onere di dimostrare l'insussistenza del rapporto suddetto ovvero l'invalidità di esso nella sua interezza ovvero delle clausole dedotte come nulle o applicate in assenza di pattuizione: in altri termini la prova contraria può riguardare tutti gli aspetti rilevanti relativi al rapporto sottostante. Ed è improduttiva di effetti la promessa di pagamento o la ricognizione di debito la cui fonte sia un negozio nullo (Cassazione Civile del 1986 n. 855), quale appunto deve ritenersi, nel caso specifico, il contratto di conto corrente n. 01/0523. Infatti nell'atto di citazione gli attori proponevano le domande relative alla nullità delle clausole concernenti gli interessi "uso piazza" e la capitalizzazione trimestrale ed alla non spettanza della commissione di massimo scoperto e dei giorni valuta. Sulla eccezione di prescrizione del P. alla restituzione delle somme relative al periodo anteriore al 1989. Va anzitutto evidenziato che l'azione diretta a far dichiarare la nullità di clausole contrattuali è imprescrittibile ex art. 1422 cod. civ., mentre quella volta ad ottenere la ripetizione di quanto indebitamente versato è soggetta alla ordinaria prescrizione decennale, di cui all'art. 2946 cod. civ. Nel caso di specie il dies a quo della decorrenza del termine prescrizionale deve essere individuato in quello della chiusura definitiva del rapporto, atteso che il contratto per la disciplina in conto corrente di operazioni bancarie è un contratto unitario che da luogo ad un unico rapporto giuridico articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché i singoli addebitamenti o accreditamenti non danno luogo a distinti rapporti ma determinano solo variazioni quantitative dell'unico originario rapporto e quindi solamente con il saldo finale si stabiliscono definitivamente i crediti ed i debiti tra le parti (Cass. Civ. sentenza del 14 maggio 2005 n. 10127). Nella specie l'apertura del credito è stata revocata il 21 maggio 1997 ed il conto chiuso il 30 settembre 1999, sicchè è indiscutibile la tempestività dell'azione. Sull'eccezione di pagamento degli interessi ultralegali quale adempimento di una obbligazione naturale. Tale eccezione non può trovare accoglimento. Infatti non è applicabile alla fattispecie l'art. 2034 cod. civ., alla cui stregua il debitore che abbia pagato interessi superiori al tasso legale non pattuiti per atto scritto, a norma dell'art. 1284 c.c., non può ripeterne l'importo, dovendo tale pagamento essere qualificato come adempimento di un'obbligazione naturale, poiché nel caso in esame non c'è stato un pagamento "spontaneo", avendo la banca proceduto di sua iniziativa e senza alcuna autorizzazione del P. all'addebito sul conto di quest'ultimo di interessi in misura ultralegale. Esaurita la disamina delle questioni pregiudizialie/o preliminari e rigettate tutte le relative eccezioni formulate dalla banca convenuta, questo giudice, passando al merito, ritiene di dover dichiarare l'illegittimità delle condizioni applicate al contratto di conto corrente per cui è causa, con particolare riferimento alla pattuizione degli interessi ultralegali attraverso il rinvio alle c.d. "uso piazza", alla capitalizzazione trimestrale dei medesimi interessi, all'applicazione della CMS e delle valute.Il presente giudizio è volto ad accertare l'invalidità e nullità parziale del contratto regolante il rapporto di apercredito. Risulta incontestato che il contratto originario, sottoscritto nel 1981, disciplinante il contratto di apertura di credito con scopertura sul conto corrente n. 01/0523, fa riferimento, ai fini della determinazione del tasso di interesse applicato al rapporto, alle "condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza". Orbene, secondo l'ormai prevalente giurisprudenza sia di legittimità che di merito, in materia di interessi ultralegali, il rinvio alle condizioni praticamente usualmente dall'azienda di credito sulla piazza non è sufficiente a soddisfare l'onere della forma scritta richiesto dall'art. 1284, comma 3 cod. civ., perché sfornito dei requisiti minimi di determinatezza o determinabilità dell'oggetto, essenziale per la validità del contratto. Del resto, il divieto di rinvio agli usi è stato espressamente sancito, dalla legge n. 154/92, che ha definitivamente determinato la scomparsa dalla modulistica bancaria della clausola in parola. E con riferimento ai contratti sottoscritti precedentemente all'entrata in vigore della predetta legge, per l'appunto il caso che ci occupa, se è pur vero che era prevalente, soprattutto nella giurisprudenza di legittimità, la tesi secondo cui in ipotesi di rinvio per relationem al saggio di interesse "usualmente praticato sulla piazza" l'oggetto del contratto non pativa nocumento alcuno in ordine al requisito della determinatezza o determinabilità, (ciò in quanto l'obbligo previsto dall'art. 1346 c.c. era, da ritenersi, ugualmente rispettato, posto che nel documento contrattuale le parti indicavano criteri certi ed obiettivi che consentivano la concreta determinazione del tasso di interesse), è altresì indiscutibile che, la stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha mutato indirizzo, sostenendo che la clausola di rinvio agli usi di piazza può ritenersi valida ed univoca solo se coordinata all'esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari, nel rispetto delle regole di concorrenza, e non quando tali accordi contengono riferimenti a tipologie di interessi praticati su scala locale e non consentano, per la loro genericità, di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso fare concreto riferimento (Cass. Civile, Sez. III, 02 ottobre 2003, n. 14684; Cass. Civile, Sez. I, 6 dicembre 2002 n. 17338; Cass. Civ., Sez. I, 23 settembre 2002 n. 13823 e numerose altre). Costituisce poi onere della banca fornire la prova dell'univocità della fonte richiamata e, quindi, dell'oggettiva determinabilità del tasso, pur nella possibile previsione di variazioni in corso di rapporto. A nulla rileva poi che, sempre nel corso del rapporto, sia eventualmente intervenuta tacita approvazione del conto. Secondo l'opinione assolutamente prevalente, lo stesso è considerato mero documento contabile, precisandosi che le relative operazioni bancarie in esso riassunte e menzionate (prelevamenti e versamenti), a differenza del conto corrente ordinario, non danno luogo alla costituzione di autonomi rapporti di credito o debito reciproci tra il cliente e la banca, ma rappresentano l'esecuzione di un unico negozio, da cui derivano il credito ed il debito della banca verso il cliente. Pertanto la mancata tempestiva contestazione dell'estratto conto trasmesso da una banca al cliente rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto quelli della validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano (in tal senso Cass. 23 settembre 2002, n. 13823; Cass. Sez. I 10 settembre 2002, n. 13143; Cass. 14 maggio 1998, n. 4846; Cass. 11 maggio 1998 n. 4735; e numerose altre). Pertanto la nullità della predetta clausola è incontestabile, non soddisfacendo il criterio della determinazione scritta dell'interesse ultralegale.Deve poi essere dichiarata la illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, per violazione dell'art. 1283 c.c.. Con riferimento a tale questione, è noto l'indirizzo più recente della Suprema Corte, che ha ritenuto nulla la previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario, avente ad oggetto, appunto, la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, giacché essa si basa su un mero uso negoziale e non su una vera e propria norma consuetudinaria, ed interviene anteriormente alla scadenza degli interessi. In tal senso Cass. Civile Sezioni Unite del 4 novembre 2004, n. 21095: "… gli usi contrari suscettibili di derogare al precetto dell'art. 1283 c.c., sono non i meri usi negoziali di cui all'art. 1340 c.c. ma esclusivamente i veri e propri usi normativi, di cui agi artt. 1 e 8 disp. Prel. Cod. civ., consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma)giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell'ordinamento giuridico (opinio iuris ac necessitatis). … dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all'inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell'ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell'associazione di categoria, in suscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari". A regolare la materia è poi intervenuto l'art. 25 del D. Lgs. 4/9/99 n. 342 che, innovando la rubrica dell'art. 120 T.U. - "Decorrenza delle valute e modalità di calcolo degli interessi" - ha aggiunto al comma 1 dell'art. 120 due nuove disposizioni alla stregua delle quali "il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria", prevedendo in ogni caso che "nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci sino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità ed i tempi dell'adeguamento. In difetto di adeguamento le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente". Peraltro la Corte Costituzionale, come è noto, con sentenza 17/10/2000 n. 425 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 25, comma 3, d. lgs. 4/8/99 n. 342 citato (contenente modifiche al decreto legislativo 1/9/93 n. 385, recante il T. U. delle norme in materia bancaria e creditizia), per contrasto con gli artt. 3, 24, 76, 77 101, 102, 104 Cost., nella parte in cui stabilisce che le clausole riguardanti la produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR relativa alle modalità e criteri per la produzione di interessi su interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, siano valide ed efficaci fino a tale data e che, dopo di essa, debbono essere adeguate (a pena di inefficacia da farsi valere solo dal cliente) al disposto della menzionata delibera, con le modalità ed i tempi ivi previsti. Per effetto di tale pronuncia, le clausole anatocistiche restano quindi disciplinate, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, dalla normativa anteriormente in vigore, alla stregua della quale esse (basate su un uso negoziale anziché su una norma consuetudinaria) sono da considerarsi nulle, perchè stipulate in violazione dell'art. 1283 c.c. (Cass. 28/3/2002 n. 4490). Alla luce, quindi, di tali orientamenti, condivisi da questo Giudice, si ritiene dover dichiarare la nullità, nella specie, della previsione contrattuale relativa alla capitalizzazione trimestrale. Non può trovare accoglimento, inoltre, la teoria della convenuta della pretesa contiguità strutturale del rapporto di conto corrente bancario rispetto al conto corrente ordinario. Secondo tale impostazione nel conto corrente bancario il saldo costituirebbe la prima rimessa di un conto, che si rinnova tutti i giorni, onde il sistema strutturale delle annotazioni in conto e della formazione continua del saldo secondo la regola dell'art. 1852 c.c. eliminerebbe in radice il problema dell'accertamento di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale dell'interesse composto, di modo che le parti avrebbero liberamente convenuto di annotare gli interessi secondo cadenze trimestrali, al cui termine il saldo prodotto costituirebbe il punto di partenza per la annotazione di ulteriori interessi. Tale impostazione parte da premesse completamente errate. Innanzitutto, mentre il conto di corrispondenza ordinario è un contratto "tipico", il contratto di conto corrente bancario non è disciplinato dal codice civile vigente come figura contrattuale autonoma, laddove, invece, è positivamente disciplinato lo svolgimento delle "operazioni bancarie in conto corrente". In dottrina, si argomenta che fra il conto corrente ordinario e quello bancario la differenza è data dalla circostanza che mentre nel primo i crediti annotati nel conto sono inesigibili, e indisponibili fino alla chiusura del conto, (art. 1823 c.c.), essendo destinati alla compensazione con eventuali futuri crediti di controparte, nel secondo il credito disponibile nel conto è sempre quello disponibile sulla base del saldo giornaliero: il che è esperienza verificabile da tutti. Peraltro nel conto corrente bancario manca l'elemento tipico del conto corrente ordinario e cioè le "reciproche rimesse", ovvero la pluralità reciproca di rapporti di dare ed avere, che costituisce la ragione pratica del conto corrente ordinario e la sua funzione economico sociale tipica, mentre nel conto di corrispondenza solo il correntista è facultato a dare impulso al rapporto, non la banca, che esegue gli ordini del correntista. Sotto altro aspetto gli accreditamenti della banca non possono avere valore di rimesse, anche perché queste mentre nel conto corrente ordinario (artt. 1827 e 1828 c.c.) ancorché iscritte nel conto, non perdono la loro singola individualità, al contrario nel conto di corrispondenza bancario le singole partite perdono la loro individuabilità, nel senso che non danno luogo a rapporti di credito/debito autonomi fra loro, tra i quali sia configurabile, ad esempio compensazione in senso tecnico, ingenerando soltanto semplici variazioni del saldo disponibile. Si conclude, sia in dottrina che in giurisprudenza, che il conto di corrispondenza bancario è un contratto atipico di natura mista, dominato dalle regole del mandato, ben distinto dal conto corrente ordinario. Peraltro la girata di un titolo di credito con l'opposizione della clausola "salvo incasso" consegue differenti effetti rispettivamente nel conto corrente ordinario e in quello bancario di corrispondenza: nel primo ha efficacia di condizione sospensiva dell'accreditamento, nel secondo è condizione risolutiva, ove segua il mancato pagamento del titolo Con sentenza n. 14091 del 1 ottobre 2002 la Cass. Civ., Sez. I, espressamente ha ritenuto che "Al conto corrente bancario è applicabile la disciplina generale dell'art. 1283 del c.c, - mentre non lo è in quanto non richiamata dall'art. 1857 del c.c. - la disciplina del conto corrente ordinario (in particolare gli articoli 1825 e 1831 c.c., secondo cui gli interessi sono liquidati ad ogni chiusura del conto e la relativa capitalizzazione è inserita nella liquidazione del saldo)". E a tale orientamento questo Giudice ritiene di uniformarsi. Pertanto va dichiarata sul punto la nullità della clausola contrattuale relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, perchè in contrasto con il disposto dell'art.1283 c.c. Parimenti non può essere condiviso il richiamo operato dalla banca convenuta all' 1194 c.c., in quanto nel caso specifico del conto corrente non esiste in senso proprio e tecnico il pagamento degli interessi o del capitale e, per di più, non è il debitore (cioè il correntista) che imputa il "pagamento", poiché il correntista si limita a versare somme (ovvero a consegnare somme alla banca) per la registrazione sul conto corrente. L'art. 1194 c.c. non può poi, altresì essere invocato poichè per imputare a pagamento una determinata somma occorre che il credito sia liquido ed esigibile e, quindi, occorre che il creditore abbia la disponibilità del credito. Tali elementi (liquidità e disponibilità) non esistono (per la banca) nell'ambito di un rapporto di conto corrente bancario, ancor più se affidato. La banca ha la disponibilità del suo credito e, dunque, ha la liquidità ed esigibilità solo quando revoca la linea di credito e chiede il rientro. Prima di allora la banca non può pretendere alcun pagamento, poiché è solo il cliente che può beneficiare della disponibilità delle somme versate e concesse dalla banca. Gli attori rilevano altresì la nullità ed inefficacia delle non convenute commissioni di massimo scoperto (c.m.s.). La censura è fondata. La c.m.s., al pari di ogni altra condizione contrattuale, deve essere determinata o almeno determinabile al momento in cui il contratto è stato concluso. Pertanto, operando un rinvio a tutte le considerazioni svolte sulla nullità della clausola di rinvio agli interessi uso piazza, può concludersi che tale nullità non può che riguardare, nel caso di specie, anche la pattuizione della c.m.s., stante la mancanza di elementi certi e predeterminati per la sua concreta quantificazione. La nullità dell'addebito delle commissioni di massimo scoperto va dichiarata anche perché queste oltre a non essere espressamente previste nel contratto, costituiscono una indebita integrazione del tasso di interesse applicato. L'art. 7 dell'impugnato rapporto non fa alcun riferimento alle c.m.s., parlando genericamente di commissioni da applicarsi nella misura stabilita, escludendo, poi, di fatto il riferimento ad usi o altro. Nell'ipotesi de quo, la banca non ha previsto alcuna remunerazione dovuta per commissione di massimo scoperto, infatti, non vi è alcun riferimento quantitativo numerico o per relationem per detta commissione. Questo giudice ritiene pertanto di doversi dichiarare la nullità della clausola che prevede l'applicazione delle c.d. c.m.s. In ordine, poi, alla questione relativa alla determinazione della valuta, va certamente condiviso l'orientamento giurisprudenziale, secondo il quale "per quanto riguarda i prelevamenti si deve riportare la valuta che corrisponde al giorno del pagamento dell'assegno, ovvero del giorno in cui la banca perde effettivamente la disponibilità del denaro, mentre per quanto riguarda i versamenti si riporta la valuta che corrisponde al giorno in cui la banca acquista effettivamente la disponibilità del denaro ... In pratica però la banca, che tiene il conto e che quindi è la parte. forte nel rapporto di ' conto corrente, per i prelevamenti di capitale effettuati dal cliente attraverso l'emissione di assegni bancari ha attribuito una valuta antergata al giorno dell'effettivo prelevamento, mentre per quanto riguarda i depositi di denaro effettuati dal cliente sul conto corrente la banca ha attribuito una valuta postergata al giorno dell'effettiva disponibilità del denaro", in tal modo determinando un aumento artificioso del tasso annuo effettivo praticato nel rapporto di conto corrente (sul punto Tribunale Civile di Lecce, con la sentenza del 17 giugno 2003 n. 1736; Corte di Cassazione, sez. I civile, con sentenza del 26 luglio 1989, n. 3507; Cass. Civ. 29 giugno 1981 n. 4209 e 20 febbraio 1988, n. 1764; Cass. civ. Sez. I 10 settembre 2002, n. 13143). Di qui la necessità di computare le operazioni di accredito effettivo delle valute dal giorno in cui la banca ha acquisito o perduto la disponibilità dei correlativi importi, regola cui si è attenuto il C.T.U. nei propri conteggi.Parimenti sono da escludersi le spese non documentate.Conclusivamente, tenuto conto di tutto quanto evidenziato, e cioè applicando gli interessi nella misura legale, con la sola capitalizzazione annuale, escludendo la commissione di massimo scoperto e le spese, e computando infine le operazioni di accredito effettivo delle valute dal giorno in cui la banca ha acquisito o perduto la disponibilità dei relativi importi, è emersa l'inesistenza di debiti degli attori (rispettivamente correntista e fideiussori) nei confronti della banca convenuta, scaturenti dal rapporto di apertura di credito mediante scoperto sul conto corrente n. 01/0523, oggetto del presente giudizio di accertamento. Invece è risultato che sono proprio gli attori ad essere titolari di un credito restitutorio verso la banca, per interessi illegittimamente corrisposti pari a lire 42.534.878 (soluzione A4, allegato G, della relazione depositata in data 16 dicembre 2002). Pertanto, previa declaratoria di nullità delle clausole del contratto bancario n 01/0523, prevedenti, ai fini della determinazione del tasso di interesse, il rinvio agli usi, e la capitalizzazione trimestrale degli interessi medesimi la banca convenuta va condannata alla restituzione, in favore degli attori, della somma di euro 21.967,431, oltre interessi semplici al tasso legale dalla data del 30 settembre 1999 (data di chiusura del rapporto), sino al saldo effettivo. Quanto alla domanda risarcitoria per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi presso Banca d'Italia spiegata dagli attori, questo giudice rileva che si sta facendo strada un nuovo orientamento giurisprudenziale secondo cui la segnalazione di una "sofferenza" non più esistente, conferendo pubblicità interbancaria ad un non reale protrarsi dell'insolvenza del debitore, è destinata ad assumere rilevanza peculiare in un'ottica commerciale ed imprenditoriale, risolvendosi in una complessa vicenda di indubitabile discredito patrimoniale, idonea a provocare un danno anche della reputazione imprenditoriale del segnalato. (Trib. Bari, sez. I, 22 dicembre 2000; Tribunale di Roma, 25 novembre 2004, n. 31484; Corte d'Appello di Milano, 4 novembre 2003; Tribunale di Milano, 17 marzo 2004. E se non vi è dubbio che un'illegittima segnalazione provoca un danno all'attività imprenditoriale che deve essere provato, è altresì indiscutibile che la lesione della reputazione personale esime il soggetto leso dall'onere di fornire in concreto la prova del danno in quanto questo viene considerato in re ipsa. Pertanto, la richiesta di risarcimento danni da illegittima segnalazione può trovare accoglimento solo e esclusivamente con riferimento al danno alla reputazione e all'immagine patito dagli attori in quanto lo stesso considerato in re ipsa, non potendo invece essere risarcito alcun altro danno non essendo stata fornita la prova dello stesso. Il danno risarcibile viene determinato in via equitativa in un importo pari a € 1.000,00.Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il G.O.T.definitivamente pronunciando sulla domanda proposta, con atto di citazione del 12 novembre 1999, da P. Cosimo e P. Maria Rosaria nei confronti della ex CARIPLO S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, così provvede:1. dichiara che Banca Intesa S.p.a. è debitrice degli attori della somma complessiva di € 21.967,43, oltre gli interessi legali correnti pro-tempore dalla data della domanda fino all'integrale soddisfo; 2. per l'effetto, condanna Banca Intesa S.p.a. (a mezzo del suo procuratoreINTESA GESTIONE CREDITI S.p.a.), al pagamento, in favore degli attori, della somma indicata al punto 1;3. condanna Banca Intesa S.p.a. (a mezzo del suo procuratore INTESA GESTIONE CREDITI S.p.a.), nonché INTESA GESTIONE CREDITI S.p.a. (in proprio), in solido tra di loro, al risarcimento del danno subito dagli attori per la illegittima segnalazione alla Centrale Rischi presso la Banca d'Italia e viene equitativamente determinato in € 1.000,00. 4. condanna INTESA GESTIONE CREDITI S.p.A. (in proprio nonché in qualità di procuratore della Banca Intesa S.p.a.) al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi € 10.600,00, di cui € 800,00 per spese, € 1800,00 per diritti, € 8.000,00 per onorario, oltre rimborso spese generali, CAP e IVA come per legge.5. pone definitivamente a carico di Intesa Gestione Crediti Spa (in proprio ed in qualità di procuratore della Banca Intesa SPA) le spese di CTU.
Lecce - Campi Salentina, 03 novembre 2005
Il GiudiceDott. Gabriella NOCERA

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