ARCO IUS

ARCO IUS costituisce una raccolta di giurisprudenza d'interesse consumeristico intesa per uso personale e non professionale. Non si assume alcuna responsabilità per eventuali imprecisioni errori od omissioni.
Coloro che fossero interessati a segnalarci altri provvedimenti potranno farlo inviando una mail.

Per facilitare la ricerca (i singoli posts sono inseriti in base alla data del provvedimento) utilizzare il tasto cerca e l'indice degli argomenti.

25/11/08

Trib Modena, 25 novembre 2008


Eccesso di velocità – multa – Telelaser – avvistabilità degli operatori - necessità - conseguenze
Nel caso di accertamento dell’eccesso di velocità tramite apparecchiatura Telelaser (LTI 20.20), gli agenti devono essere visibili dall’autista, soprattutto se l’infrazione avviene di notte; diversamente la multa così irrogata va annullata.
In materia di multe e decurtazione di punti, si veda Cassazione civile, SS.UU., sentenza 29.07.2008, n. 20544
(Fonte: Altalex Massimario)


Tribunale di Modena
Sentenza 25 novembre 2008
(Giudice Pagliani)

Svolgimento del processo

Come da atti di causa e sopraesteso verbale d'udienza.

Motivi della decisione
A M. A. è stata contestata dalla Polizia Municipale di Cavezzano (MO) la violazione dell'art. 142, 9° c., Codice della strada, per eccesso di velocità rilevato con apparecchio elettronico.A. M. con il ricorso in opposizione ha sollevato diversi motivi di censura avverso il verbale contestatogli il 14 marzo 2007:
1) l'inaffidabilità dello strumento rilevatore utilizzato (Telelaser LTI 20.20);
2) l'errata compilazione del verbale opposto (in quanto non veniva indicato il risultato della riduzione del 5% della velocità rilevata pur essendo indicata tale tolleranza);
3) la violazione dell'art. 183 DPR 14/12/1992 n. 495 (in base al quale gli agenti operanti sulle strade devono essere visibili);
4) la mancanza di valore probatorio del verbale impugnato. L'opposizione è stata decisa, con contestuale pubblica lettura del dispositivo, in base alla seguente motivazione: "ritenuto fondato ed assorbente il motivo del ricorso attinente il posizionamento disposto non in forma visibile del nucleo di rilevamento, accoglie il ricorso stesso e per l'effetto annulla il verbale di contestazione...".L'amministrazione comunale appellante svolge diversi motivi di appello:
con il primo motivo censura deduce violazione delle regole sull'onere della prova da parte del giudice di prime cure, in relazione alla circostanza della visibilità degli agenti operanti, ai sensi dell'art. 183 DPR 14/12/1992 n. 495;
con gli altri motivi esamina gli altri punti dell'impugnazione del verbale di contestazione svolgendo le medesime obiezioni già proposte nella comparsa di risposta del giudizio di primo grado.Quanto, dunque, al primo motivo di opposizione, esso riguarda la motivazione del primo giudicante sulla prova della non visibilità degli agenti, indefettibile presupposto della legittimità dell'ordinanza. Sul punto la motivazione della sentenza impugnata, benché necessariamente sintetica in quanto resa con pronuncia contestuale in udienza, è corretta. Dalle risultanze istruttorie acquisite emerge con certezza che la pattuglia non era visibile. L'orario dell'accertamento è indicato 20,58 del 14 Marzo 2007. Dunque, era buio. Nel verbale non vi è alcun riferimento alla presenza di illuminazione pubblica. Dalla deposizione resa in primo grado dall'agente Caleffi risulta che la pattuglia era posizionata a circa cento metri dal punto del rilevamento della velocità, e sul lato opposto della carreggiata rispetto alla direzione di marcia di M.; tanto che per intimargli l'alt l'agente si è portato al centro della strada, per poi attraversarla e contestare la violazione.
In tale condizione, né gli agenti di polizia municipale, né la vettura potevano essere avvistabili e riconoscibili da un conducente nelle condizioni di M.. Infatti, in zona con limite di velocità urbano, si presume che M. procedesse con le luci anabbaglianti, e non certo con i proiettori abbaglianti azionati, circostanza quest'ultima che, in ogni caso, non è mai stata riferita né verbalizzata. Nelle descritte condizioni di marcia, non è possibile avvistare chi si trova a cento metri di distanza dall'altra parte della strada; sia per la distanza che per il fatto che i fari anabbaglianti sono orientati verso destra, e non verso il lato sinistro della direzione di marcia. In ragione delle esposte considerazioni, il ricorrente in primo grado aveva fornito la prova del fatto fondante l'illegittimità dell'accertamento, e spettava all'amministrazione fornire la contraria prova positiva dell'avvistabilità concreta degli operanti; prova che, tuttavia, non solo non è stata fornita, ma che non poteva essere fornita perché non contenuta nel verbale di accertamento, nel quale infatti non erano state indicate: le condizioni di illuminazione della strada; la posizione della pattuglia e degli operanti; la distanza tra il punto di accertamento e la posizione della pattuglia; la concreta avvistabilità, in definitiva, degli operanti e della vettura di servizio; elementi tutti che devono essere indicati nel verbale per esplicare in concreto le condizioni di fatto dell'accertamento, e dare conto dell'elemento specifico dell'avvistabilità degli agenti, presupposto di legittimità dell'accertamento; specie in caso di verbale relativo ad un accertamento in orario notturno.Sulla base delle soprastanti considerazioni, quindi, deve riscontrarsi la corretta applicazione dei principi dell'onere probatorio e la correttezza e sufficienza della motivazione da parte del primo giudicante e, viceversa, l'infondatezza dell'appello.Ogni altro motivo di appello è, infatti, superato ed assorbito dall'accoglimento del motivo di ricorso che, per le ragioni sopra esposte, conduce all'annullamento dell'accertamento.Ne consegue il rigetto dell'appello e la condanna alle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, respinge l'appello proposto dal Comune di Cavezzo verso la sentenza n. 21/08 del giudice di pace di Mirandola;dichiara tenuto e condanna il Comune di Cavezzo a rifondere a M. A. le spese processuali che liquida nella misura di complessivi euro 1.721,90, di cui euro 15,48 per spese, euro 515,00 per competenze, euro 720,00 per onorari, euro 156,31 per rimborso spese generali.

Tribunale di Taranto, Sentenza 25 novembre 2008

Telecomunicazioni: va disattesa l'eccezione di improcedibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. sollevata per il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

TRIBUNALE DI TARANTO
SEZIONE DISTACCATA DI GINOSA

n. ???/2008 r.g. spec.
IL GIUDICE DESIGNATO
letti gli atti relativi al ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato in data 28 ottobre 2008 dalla ????? srl (avv. Tommaso Bozza) nei confronti della ???????? spa (avv. L. P.);
sentite le parti;
sciolta la riserva di cui al verbale di udienza del 18 novembre 2008;

osserva in fatto:
la società ricorrente lamenta l'inadempimento da parte della ????????? spa del contratto di telefonia relativo all'utenza fissa n. ????????; in particolare, deduce che dalla metà di settembre la predetta linea telefonica risulta interrotta, probabilmente a causa della caduta di taluni pali, e da allora non più ripristinata, nonostante le numerose segnalazione al call center n. ??? (divenute addirittura quotidiane dal mese di ottobre), il fax di diffida del 16 settembre e la raccomandata inviata il successivo 22 settembre, con la quale si è paventato il pericolo di gravi danni all'attività commerciale svolta dalla ???????? srl. Ed invero, l'impossibilità di effettuare e ricevere ordinativi per telefono (aggravata dall'inutilizzabilità del servizio di posta elettronica) avrebbe determinato, a partire dal mese di settembre, un sensibile calo del fatturato rispetto al corrispondente periodo dello scorso anno, sicché la ricorrente chiede che sia ordinato alla società resistente l'immediato ripristino della linea telefonica. Vinte le spese di lite.
Con memoria depositata all'udienza del 18 novembre 2008 si è costituita la ???????? spa, la quale ha eccepito l'inammissibilità del ricorso per difetto del requisito della residualità, avendo l'ordinamento predisposto altra e tipica tutela cautelare disciplinata dall'art. 5, comma 3, della delibera n. 173/07/Cons dell'Autorità Garante per le comunicazioni; nonché l'improcedibilità dell'azione proposta per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all'art. 3, comma 1, della predetta delibera, attuativi della previsione normativa contenuta nell'art. 1, comma 11, legge 31 luglio 1997, n. 249. Nel merito, peraltro, la società resistente asserisce l'attuale impossibilità di intervenire per il ripristino della rete telefonica, in quanto i proprietari del terreno, sul quale insistono i pali caduti a seguito di un incidente stradale verificatosi nello scorso mese di luglio, si oppongono all'ingresso di dipendenti ?????? all'interno della loro proprietà. Deduce, infine, la mancanza di qualsivoglia periculum in mora, sia perché, come chiarito da taluna giurisprudenza di merito, "la risalenza nel tempo della vicenda esclude l'imminenza di un pregiudizio irreparabile" (comparsa di costituzione, p. 9), sia perché il danno paventato avrebbe natura prettamente patrimoniale e, quindi, integralmente risarcibile, anche in considerazione del rilievo che "venuto meno il regime di monopolio... [l'utente potrebbe] nelle more del giudizio ordinario usufruire dei servizi equivalenti offerti da altri gestori di telefonia fissa e mobile" (comparsa di costituzione, p. 11). Chiede, pertanto, il rigetto dell'istanza cautelare, con vittoria delle spese di lite.

osserva in diritto:

va, preliminarmente, disattesa l'eccezione di improcedibilità sollevata dalla società resistente per il mancato esperimento, da parte della ricorrente, del tentativo obbligatorio di conciliazione disciplinato dall'art. 3, comma 1, della delibera n. 173/07/Cons dell'Autorità Garante per le comunicazioni.
Ed invero, il Giudicante ritiene che, in mancanza di un'espressa previsione di legge, la dedotta condizione di procedibilità non possa trovare applicazione nei procedimenti cautelari d'urgenza, anche in considerazione dell'art. 412 bis cpc, in forza del quale "...il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non preclude la concessione dei provvedimenti speciali d'urgenza e di quelli cautelari previsti nel capo III del titolo I del libro IV. In proposito, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 276 del 2000, ha osservato come il limite all'immediatezza della tutela giurisdizionale, in materia di controversie di lavoro, risulti ragionevole, tra l'altro, proprio perché "prima dell'espletamento del tentativo di conciliazione e durante il tempo per il suo espletamento, la situazione sostanziale è comunque tutelabile in via cautelare, onde è posta al riparo da eventuali pregiudizi dalla durata del processo a cognizione piena". La tutela cautelare, in definitiva, costituisce uno strumento d'azione necessario per l'effettiva tutela del diritto controverso, costituzionalmente rilevante ai sensi degli artt. 24 e 111 della nostra Carta fondamentale, quando si prospetti una situazione di pericolo nel ritardo, che, in quanto tale, non tollera attese e necessita di una risposta di tutela a volte immediata, come confermato dalla possibilità di assumere persino provvedimenti inaudita altera parte (in tal senso la prevalente giurisprudenza di merito: fra gli altri, Trib. Lanciano, 11 marzo 2005; Trib. Brindisi, 18 agosto 2006; Trib. Roma, 20 maggio 2002).
Né, in senso contrario, si può sostenere che le esigenze cautelari dell'utente troverebbero, comunque, adeguata tutela nei "provvedimenti temporanei" del Dipartimento garanzie e contenzioso dell'Autorità delle comunicazioni - previsti dall'art. 5, Gomma 3, della già richiamata delibera n. 173 del 2007 -, i quali, pur diretti a garantire l'erogazione del servizio o a far cessare forme di abuso o di scorretto funzionamento da parte dell'organismo di telecomunicazioni sino al termine della procedura conciliativa, sono adottati da un'Autorità non giurisdizionale e, dunque, sono privi di quell'esecutività e coercibilità necessarie per rispondere con immediatezza ed effettività alle esigenze di natura cautelare del consumatore (fra gli altri, Trib. Isernia, 26 gennaio 2006). È appena il caso di rilevare, infatti, che essi, quand'anche fossero ritenuti titoli esecutivi, richiederebbero pur sempre l'attivazione di una procedura esecutiva - da instaurarsi con apposito ed ulteriore atto di precetto - non necessaria, invece, in presenza di un provvedimento ex art. 700 cpc, che, senza altre formalità, può essere attuato ex art. 669 duodecies cpc.
Non può, del pari, trovare condivisione l'eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto del requisito della residualità, fondata per l'appunto sull'espressa previsione della tutela d'urgenza sopra richiamata. Ed invero il principio di residualità contribuisce a delineare la portata applicativa dell'art. 700 cpc esclusivamente nell'ambito dei rimedi giurisdizionali, laddove i "provvedimenti temporanei" di cui all'art. 5, comma 3, hanno, come già chiarito, natura chiaramente non giurisdizionale e non possono, pertanto, porsi in rapporto di incompatibilità con lo strumento cautelare atipico previsto dal codice di rito.
Ciò premesso, è appena il caso di rilevare che la concessione di un provvedimento d'urgenza richiede la compresenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. Quanto al primo dei due presupposti, la ricorrente assume che l'utenza n. ????????? risulta interrotta dal mese di settembre 2008 e tale circostanza non trova contestazione alcuna da parte della resistente (nella relativa comparsa, p. 6, anzi, si individua l'origine del disservizio in un incidente verificatosi nel precedente mese di luglio), la quale, tuttavia, deduce l'impossibilità di porre rimedio al guasto per la ferma opposizione dei coniugi ???????????, comproprietari del terreno sul quale insistono i pali caduti della rete telefonica. In altri termini, la ?????? spa ammette l'inadempimento, ma nega che esso possa ritenersi colpevole, non essendo imputabile ad una sua negligenza o inattività. Sennonché, la dedotta opposizione dei predetti terzi non individua una circostanza di per sé idonea a giustificare la perdurante interruzione del servizio telefonico. A tal fine, infatti, la società resistente avrebbe anzitutto dovuto affermare (e richiesto di comprovare) che non sussistono soluzioni tecniche al guasto alternative ad un intervento di manutenzione all'interno della proprietà ???????????, nonché, soprattutto, di aver intrapreso ogni iniziativa volta a superare le resistenze di questi ultimi. Ed invero, la ??????? spa, in quanto titolare di diritti di servitù sui terreni che ospitano i pali della rete, è tenuta a farli valere anche in via giudiziaria, se necessario per assicurare alla propria clientela l'effettività del servizio telefonico, laddove, nel caso di specie, non ha neppure dedotto azioni volte a contrastare l'asserito spoglio della servitù esistente sul fondo servente appartenente ai su menzionati terzi. Conseguentemente, il Giudicante ha ritenuto del tutto ininfluente ai fini della concessione dell'interdetto l'escussione dell'informatore ??????? richiesta dalla società resistente (e finalizzata, come detto, alla dimostrazione della mera impossibilità di fatto di accedere sui terreni sui quali ricadono i pali danneggiati), nonché la chiamata in causa dei coniugi ????????????, rispetto ai quali - pur prescindendo dal rilievo della assai dubbia compatibilità fra la chiamata in causa di terzi e la natura cautelare del presente procedimento - non può certo affermarsi la comunanza della controversia oggetto di causa (al più la ?????? potrebbe avanzare pretese di rivalsa, allorché fosse proposta dall'odierna ricorrente ed accolta dall'autorità giudiziaria adita un'eventuale domanda risarcitoria in suo danno).
In conclusione, il comportamento della ???????, ponendosi in evidente contrasto con il preciso obbligo di ripristinare tempestivamente gli eventuali disservizi della rete e/o del servizio, individua senz'altro una grave violazione di quei principi di buona fede e correttezza, che regolano il fisiologico sviluppo di ogni rapporto contrattuale, rendendo così manifesto il diritto della ???????????? srl di pretendere l'immediata riattivazione della propria utenza telefonica.
Quanto al periculum, è noto che esso si risolve nel fondato motivo di temere che il diritto azionato sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile durante il tempo occorrente per farlo valere in via ordinaria. Nel caso di specie, l'impossibilità di comunicare telefonicamente, sia in entrata che in uscita, incide in modo significativo sulle modalità di svolgimento dell'attività commerciale della ricorrente (si pensi, ad esempio, all'impossibilità di effettuare o di ricevere ordinativi anche via internet), la quale si trova esposta al rischio obiettivo di perdita di clientela; il che individua un pregiudizio difficilmente rimediabile, attesa la peculiare natura dei rapporti commerciali, fondati su scelte dei consumatori che avvengono sulla base non solo di apprezzamenti individuali ma anche per vicende accidentali. Non senza osservare, peraltro, che un tale pregiudizio, pur se ritenuto prettamente economico, presenterebbe enormi difficoltà probatorie in sede di merito, ove i relativi effetti persistessero nel tempo. Né un tale danno potrebbe essere evitato rivolgendosi ad altro gestore telefonico, giacché, da un lato, l'attivazione di una nuova linea fissa, pur mantenendo lo stesso numero, comporterebbe tempi tecnici (correlati alla risoluzione del preesistente rapporto contrattuale e alla successiva conclusione di un nuovo contratto), che aggraverebbero inevitabilmente il danno lamentato dal cliente; dall'altro, l'attivazione di una linea mobile non rimuoverebbe il pregiudizio connesso all'interruzione dell'utenza fissa, oramai nota ai clienti abituali della ricorrente e, comunque, agevolmente conoscibile attraverso gli elenchi telefonici dell'anno in corso, nei quali, ovviamente, non si potrebbe rinvenire il nuovo numero di cellulare.
D'altronde non può trovare condivisione alcuna la tesi, pure sostenuta da una parte della giurisprudenza di merito, secondo la quale il decorso di un significativo lasso temporale tra la realizzazione della condotta lesiva e la proposizione del ricorso escluderebbe il requisito del periculum in mora. Al contrario, è per l'appunto la protrazione nel tempo della condotta antigiuridica che può rendere imminente il pregiudizio lamentato; nel caso di specie, invero, viene in rilievo un illecito contrattuale permanente, che tende ad aggravare sempre più l'evento dannoso e a consolidarne gli effetti sì da renderlo irreparabile, quand'anche trascurabile nella sua fase iniziale.
In definitiva, il Giudicante ritiene, sia pure nei limiti della sommaria cognizione della presente fase processuale, che nel caso che ci occupa ricorrano entrambi i presupposti del fumus boni juris e del periculum in mora: il primo, sotto il profilo dell'obiettivo inadempimento del contratto da parte della resistente; il secondo, per la natura irrimediabile del pregiudizio lamentato dalla ricorrente: l'istanza cautelare merita, pertanto, accoglimento.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

p.q.m.

visti gli artt. 669 sexies ed octies c.p.c.;
pronunziando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
ORDINA alla ??????? spa di riattivare immediatamente e senza indugio l'utenza telefonica n. ?????;
CONDANNA la società resistente a pagare in favore della ??????? s.r.l. le spese di lite, che liquida in complessivi euro??????? (di cui ?????? per esborsi e ????? per diritti), oltre rimborso forf., IVA e CAP come per legge.
Così deciso in Ginosa il giorno 25 novembre 2008
Il GiudiceDott. Italo FEDERICI

24/11/08

Corte d'Appello Perugia, 24.11.08

Danno non patrimoniale – unicum – voci risarcitorie – superamento – tutela – integralità del risarcimento – necessità [art. 2059 c.c.]
Corte di Appello
Perugia
Sentenza 24 novembre 2008
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI PERUGIA
SEZIONE CIVILE

Composta dai Magistrati:
...omissis...
Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. … anno … Ruolo Gen. Contenzioso Civile,
TRA
W. e J. (in proprio e nell’interesse dei figli minori Y. e K.), elettivamente domiciliati in … , presso lo Studio dell’Avv. …, e rappresentati e difesi in giudizio dall’Avv. …, in forza di procura estesa in calce all’atto di appello

APPELLANTI

E

X., elettivamente domiciliato in … , presso lo Studio dell’Avv. … , e rappresentato e difeso in giudizio, anche disgiuntamente, dagli Avv.ti … , in forza di procura estesa a margine della memoria di costituzione in appello

APPELLATO

E

… ASSICURAZIONE … ., in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in …, presso lo Studio dell’Avv. …, che la rappresenta e difende in giudizio in forza di delega estesa a margine del “ricorso notificato” (retro pag. 23)

APPELLATA

CONCLUSIONI DEI PROCURATORI DELLE PARTI:

Per W. e J. come all’atto di appello:
Piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello di Perugia adita, in accoglimento del presente gravame,
annullare e/o riformare, previa sospensione dell’efficacia esecutiva, l’impugnata decisione del Tribunale di Terni … e, per l’effetto, riconoscersi il Sig. X., in qualità di padrone del cane, responsabile di ogni danno subito dalla piccola Y. e dal di lei fratello, come richiesti nell’atto di citazione in primo grado e, comunque, come identificati e quantificati in sede di CTUR, oltre che dei danni tutti patiti dai genitori e patendi, con condanna del medesimo al pagamento. Con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese, con condanna anche di quelle di cui al primo grado di giudizio.
* Per X. come alla memoria di costituzione in appello
Piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello di Perugia respingere l’appello ex adverso proposto per tutte le considerazioni sopra esposte e per quelle che saranno ulteriormente esposte in memoria, con conferma della sentenza di primo grado.
Con vittoria di spese del grado.
In subordine, e salvo gravame, nella deprecata ipotesi di accoglimento in tutto o in parte dell’appello ex adverso proposto, piaccia all’Ecc.ma Corte di Appello di Perugia condannare la società “… Assicurazioni … ”, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in …, chiamata in causa, a tenere
indenne il signor X., in forza del contratto di assicurazione da tutte le pretese delle parti appellanti, e sia pertanto condannata a pagare quanto fosse dovuto dal sig. X. agli appellanti e comunque a rifondergli ogni e qualsiasi somma al pagamento della quale fosse dichiarato tenuto.
Per … Assicurazione … come alla comparsa di costituzione e risposta in appello:
Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello di Perugia adita, contrariis reiectis, rigettare il ricorso in appello, in quanto infondato in fatto ed in diritto e confermare integralmente la sentenza … impugnata.
Con vittoria di spese, funzioni ed onorari di causa.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto di citazione in data 15/5/2003, ritualmente notificato, i Sigg.ri W. e J., in proprio e quali genitori esercenti la potestà sui figli minori Y. e K., esponevano
che il 2/7/2001 la figlia Y., di anni 4, mentre si trovava presso l’abitazione del padre sita all’interno del cortile della villa della Sig.ra … (sita in …), era stata, improvvisamente, aggredita, “in modo estremamente violento” con inflizione di “innumerevoli morsi”, da un cane pastore maremmano di proprietà del Sig. X.;
che dall’occorso era derivata alla bambina una pluralità di danni, tutti assai gravi: inabilità temporanea assoluta ed inabilità temporanea parziale “di molti giorni”; “danno biologico notevole”; danno alla vita di relazione e danno morale “di rilevante incidenza”;
che dall’occorso erano derivati danni anche all’altro figlio degli istanti, K. (anni 7), il quale, “nell’assistere all’evento dannoso”, aveva “subito un serio pregiudizio alla sua integrità personale”, essendogli derivata “una condizione psicologica caratterizzata da una dinamica regressiva e dalla presenza di una sintomatologia ansioso-depressiva concretatasi in un disturbo stabile della sfera emozionale oltre che in rilevante danno morale”;
che gli esponenti, oltre ai disagi ed alle sofferenze derivati dall’accaduto, avevano dovuto affrontare spese rilevanti (medicine, assistenza, alimentazione speciale, trasporti etc.).
Tutto questo posto, W. e J. convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Terni, X., per sentirlo dichiarare responsabile dell’occorso e per sentirlo condannare al risarcimento dei danni materiali e morali subiti dagli esponenti e dai figli minori, quantificati in complessivi Euro 77.468,53 (di cui Euro 51.645,69 per i danni subiti da Y., Euro 10.329,14 per i danni subiti da J. ed Euro 7.746,85 per ciascuno dei genitori), salva la diversa somma “di giustizia”.
2. Costituitosi in giudizio, il Sig. X. eccepiva, preliminarmente, la carenza di legittimazione attiva degli attori per quanto inerente alle domande risarcitorie proposte nell’interesse dei minori, avendo intrapreso l’azione giudiziaria senza essersi preventivamente provvisti dell’autorizzazione del Giudice tutelare, necessaria “anche in ragione del conflitto di interessi esistente”, la responsabilità dell’accaduto dovendo, invero, essere addebitata in via esclusiva alla condotta del W..
Nel merito, il convenuto chiedeva la reiezione della domanda, dedottane l’infondatezza, a tal uopo adducendo
che il W. occupava, “da solo senza alcun familiare”, una delle due unità immobiliari costituenti il fabbricato sito in …, l’altra unità essendo utilizzata, come abitazione, dall’esponente e dalla sua famiglia;
che le due unità immobiliari erano circondate da un giardino protetto da un’unica recinzione;
che, sin dall’inizio del rapporto con il W., il cane (ben conosciuto dall’attore), si aggirava liberamente nel predetto giardino;
che il giorno 2/7/2001, verso le 18,30, il W. si era recato con i figli “non conviventi” “sull’uscio dell’abitazione della famiglia X.”, avvicinandosi alla Sig.ra … che ivi sostava, la quale li aveva avvertiti “circa la presenza del cane che si aggirava per l’abitazione e il giardino”, invitandoli ad allontanarsi, invito ribadito anche dalla Sig.ra …, affacciatasi da una delle finestre poste al piano superiore della sua abitazione;
che i bambini con il padre avevano, invece, tentato di avvicinare il cane;
che i bambini avevano ripetutamente chiamato l’animale, “nonostante gli avvertimenti delle … Galeazzi” di non chiamarlo e “tanto meno tentare di giocarci” ed erano rimasti innanzi all’uscio dell’abitazione Galeazzi;
che, in tale contesto, il cane, avvicinatosi, “con uno scatto improvviso da non permettere l’intervento delle persone presenti”, aveva aggredito la piccola Y.;
che, ciò stante, nessuna responsabilità poteva essere ascritta all’esponente, quale proprietario del cane, che “era contenuto all’interno del giardino in uso alla famiglia del convenuto, provvisto di idonea recinzione, in una situazione ben nota al W.”;
che, in ogni caso, le domande attrici dovevano essere contestate in punto di an, per quanto inerente ai danni asseritamente subiti dal W. e dalla J. e dal figlio K., e in punto di quantum, perché “infondate, non provate e comunque esagerate …”.
Il X. chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa sia “… Assicurazioni ….”, per essere manlevato da ogni richiesta risarcitoria, sia il W., “stante la comunanza di causa e le evidenti ragioni di connessione e affinché il giudizio” facesse “stato anche nei suoi confronti dello stesso ai fini dell’affermazione della sua responsabilità nell’incidente …”.
3. Costituitasi in giudizio a seguito della chiamata in causa, la Compagnia assicuratrice eccepiva, preliminarmente, l’inammissibilità della domanda attrice esperita nell’interesse dei minori per carenza (per le stesse ragioni già esposte da X.) di legittimazione attiva del W. e della YYYi e, nel merito, chiedeva la reiezione della domanda, dedottane l’infondatezza, dovendo l’occorso essere ascritto alla condotta del W..
4. Udito il W. in sede di interrogatorio formale, assunte deposizioni testimoniali, disposte c.t.u. medico-legali ed acquisiti i relativi elaborati, con sentenza del 4/8-17/10/2005, il Tribunale adito, disattesa la preliminare eccezione di carenza di legittimazione attiva proposta dal convenuto e dalla chiamata in causa, respingeva la domanda attrice e compensava le spese di lite, ponendo a carico degli attori le spese delle c.t.u.
5. Avverso tale pronuncia hanno proposto appello, chiedendone l’integrale riforma, il W. e la J., in proprio e nell’interesse dei figli minori, ribadendo nelle forme del gravame la domanda originariamente proposta.
Costituitisi in giudizio, sia il X. che il suo assicuratore hanno chiesto la reiezione del gravame, dedottane l’infondatezza in fatto e in diritto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo Giudice, dopo avere ritenuto che gli originari attori/odierni appellanti avessero compiutamente assolto all’onere probatorio loro incombente, avendo dato prova della sussistenza del danno e del suo collegamento causale con il comportamento dell’animale/con la condotta dell’originario convenuto/odierno appellato X., ha, peraltro, altresì ritenuto che quest’ultimo avesse fornito prova liberatoria, dimostrando l’intervento di un fattore estraneo ai suddetti comportamento/condotta, interruttivo del nesso causale, consistito nella “condotta altamente imprudente dell’attore W. …, genitore dei due minori …”.
1.1 A carico di quest’ultimo è stato annotato
che egli, conduttore di una unità immobiliare sita all’interno del giardino della villa abitata dal convenuto con la famiglia, villa ed unità circondate da una unica recinzione, aveva più volte visto il cane aggirarsi libero per il giardino e per la casa della famiglia X. (testi …); essendo, in ogni caso, “del tutto attendibile che, stante la recinzione, il cane fosse a volte lasciato libero di poter correre e girare nel giardino”;
che “il W. non abitava con i figli nella abitazione, ma i figli lo venivano, a volte, a visitare”;
che il X., “che non doveva ricevere alcuno e che non era certo a conoscenza della venuta e della presenza nel giardino di bambini, non aveva alcun obbligo di tenere chiuso nel box il pastore né di mettergli la museruola per farlo girare nel giardino”, obblighi che avrebbe avuto solo se fosse stato a conoscenza della presenza dei bambini nel giardino, “e ciò tanto più tenendo presente che i bambini, soprattutto di pochi anni, possono a volte infastidire con i loro comportamenti e grida l’animale non rendendosi conto che questo può avere delle reazioni aggressive, se infastidito, e ciò, soprattutto, quando si tratta di un cane della razza del cane in esame destinato alla guardia, di dimensioni non piccole”;
che, giusta le deposizioni testimoniali (…), fu il W., con i bambini, a presentarsi all’ingresso dell’abitazione del X. e, benché fosse stato avvisato che il cane si aggirava libero e fosse stato invitato ad allontanarsi, non aveva dato seguito a tali avvertimento ed invito, dicendo che i bambini volevano giocare con il cane;
che, giusta le deposizioni testimoniali, i bambini avevano, prima dell’occorso, ripetutamente chiamato, ed a gran voce, il cane.
Il primo Giudice ha, altresì, annotato che quanto riferito dalle testi (…) appariva credibile, “posto che i bambini hanno grande interesse per gli animali e non hanno paura degli stessi in quanto non in grado di sapere, per mancanza di conoscenza ed esperienza, che gli animali possono avere atteggiamenti e reazioni di aggressività, in specie se infastiditi dai richiami dei bambini”; dovendo, viceversa, negarsi credibilità all’assunto del W. in sede di risposta all’interrogatorio formale (“la parte, invero, in sede di interrogatorio, non ha l’obbligo di dire la verità, obbligo, invece, che hanno i testi che possono essere denunciati per falsa testimonianza, onde, in mancanza di elementi per ritenere che abbiano reso dichiarazioni false, le dichiarazioni dei testi hanno credibilità”), secondo cui che il cane aveva aggredito la piccola mentre la stessa era intenta a giocare davanti “alla sua abitazione” con il fratello e che i due bambini non avevano chiamato il cane.
Il primo Giudice ha, quindi, concluso affermando che “la responsabilità del W. è evidente posto che, essendo a conoscenza che il cane veniva, a volte, fatto circolare nel giardino, lo stesso, prima di lasciare i bambini nel giardino, si sarebbe dovuto accertare se il cane fosse o meno chiuso nel box. Ed invero, costituisce una enorme imprudenza lasciare dei bambini, da soli, in un giardino ove è possibile che circoli un cane di dimensioni non piccole e destinato, per la sua razza, alla guardia e, quindi, con istinti di aggressività maggiori rispetto a quelli di un cane di piccole dimensioni che vive al chiuso”.
2. Gli appellanti hanno mosso censura alla suddetta sentenza per una pluralità di profili, ed essenzialmente per avere ritenuto che X. avesse fornito prova del ricorrere, nella fattispecie, del “caso fortuito”, individuato nella colpevole condotta del X., pervenendo a tale
conclusione partendo “da presupposti del tutto errati e da una rappresentazione della realtà non corrispondente al vero”, vale a dire dando, erroneamente, per acquisito, sulla scorta di deposizioni testimoniali (quelle rese da …) non attendibili (“le medesime erano le custodi dell’animale e ne avevano il legittimo possesso … e, comunque, in assenza del sig. X., e, per tale motivo, esse stesse parti del processo perché responsabili della bestia in quanto custodi di essa … ”) o (quelle rese da …) non rilevanti (essendosi il teste limitato ad affermare di avere visto “altre volte il cane … che si aggirava per il giardino e la casa della famiglia X.” , ove si recava “quasi tutte le settimane”),
a) che “il W. non abitava con i figli nella abitazione ma i figli lo venivano, a volte, a visitare”;
b) che “il X. non doveva ricevere alcuno e non era certo a conoscenza della venuta e della presenza nel giardino dei bambini”;
c) che il W., con i figli, si era presentato all’ingresso dell’abitazione dei X. e, “benché fosse stato avvisato che il cane si aggirava libero ed invitato ad allontanarsi, non ebbe ad allontanarsi dicendo che i bambini volevano giocare con il cane”;
d) che i bambini avevano chiamato “ripetutamente e a gran voce, il cane”.
3. Appare opportuno, prima di dare corso all’esame del fatto, richiamare i principi vigenti in materia e le circostanze ormai definitivamente acquisite.
Ai sensi dell'art. 2052 c.c., "il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui l’ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall'animale, sia che fosse sotto custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito".
Tale disposizione collega la responsabilità ad un duplice presupposto: da un lato, la sussistenza di nesso causale tra il fatto dell'animale e l'evento dannoso; dall'altro, la mera sussistenza di un rapporto di proprietà o di autonoma utilizzazione da parte di soggetto diverso dal proprietario in capo alla persona chiamata a rispondere del suddetto evento, nell’un caso e nell’altro essendovi possibilità di “liberarsi” da responsabilità esclusivamente dando la prova del caso fortuito (si vedano, in tal senso, ex multis, Cass. 14 settembre 2000 n. 12161; Cass. 30 marzo 2001 n. 4742; Cass. 9 gennaio 2002 n. 200; Cass. 23 gennaio 2006 n. 1210).
3.1 Stante l’assenza di contestazioni sul punto (va ribadito che l’onere probatorio gravante sul W. e sulla J. risulta essere stato - come già annotato (paragrafo 1.1) - compiutamente assolto, nessun onere loro incombendo ai sensi dell’art. 2048 c.c., disposizione evocata dall’appellato, ma del tutto inconferente nella fattispecie, in cui non vengono in rilievo danni cagionati dal fatto illecito dei figli minori), deve ritenersi acclarato che i danni sofferti dalla piccola Y., nonché quelli subiti dal fratello K. e dai loro genitori sono riconducibili al comportamento dell’animale (nel “nostro” caso: l’aggressione nei confronti della piccola Y. descritta nella premessa di fatto; di nessun interesse, per il profilo in esame, palesandosi le modalità dell’occorso, se quelle narrate dagli originari attori o quelle narrate dall’originario convenuto - si veda, sulle rispettive versioni, il paragrafo 1.1), titolarità passiva nella vicenda competendo a X., incontestatamente proprietario dell’animale.
In altri termini, è da ritenere fuori di ogni questione (il relativo assunto non è stato in alcun modo contestato in questa fase) che in esito all’occorso la piccola Y. ebbe a subire lesioni personali e che tali lesioni siano state prodotte dall’animale.
Del pari, non essendo stati i relativi assunti in alcun modo contestati in questa fase, deve ritenersi fuori di ogni questione che in esito all’occorso il piccolo K., il W. e la J. abbiano subito danni (non patrimoniali il primo, non patrimoniali e patrimoniali il secondo e la terza).
3.2 Per sottrarsi alla responsabilità ex art. 2052 c.c. - la quale è presunta (presunzione iuris et de iure), e prescinde, pertanto, dalla sussistenza della colpa - l’originario convenuto/odierno appellato X. era tenuto a fornire la prova del “caso fortuito”; avrebbe, in altri termini, dovuto non già semplicemente fornire la prova negativa della sua assenza di colpa (essendo la responsabilità presunta fondata sul rapporto di fatto con l’animale), bensì fornire la prova positiva della causazione del danno ad opera di un evento fortuito, id est di un fattore esterno idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, provvisto dei caratteri della imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità, tale, in altri termini, da escludere ogni rilevanza causale del suo comportamento (si vedano, in tal senso, ex multis, Cass. 4 dicembre 1998 n. 12307; Cass. 14 settembre 2000 n. 12161; Cass. 30 marzo 2001 n. 4742; Cass. 9 gennaio 2002 n. 200; Cass. 19 marzo 2007 n. 6454).
3.2.1 Deve escludersi che la suddetta presunzione sia stata vinta.
Così come costantemente affermato dalla giurisprudenza, il caso fortuito può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato (si vedano, in tal senso, Cass. 22 febbraio 2000 n. 1971; Cass. 19 marzo 2007 n. 6454), ma l’uno o l’altra, per avere effetti liberatori, devono consistere in un comportamento cosciente e volontario che assorba l'intero rapporto causale, e cioè in una condotta che, esponendo il danneggiato al rischio, e rendendo questo per ciò stesso possibile in concreto, s'inserisca in detto rapporto con forza determinante.
Ciò deve essere escluso nel caso concreto.
3.2.1.1 In suo pro, X. adduce, essenzialmente, tre circostanze:
* il cane veniva, non infrequentemente, “ammesso”, dal box di custodia, a vagare nel giardino (è da ritenere acquisito che il giardino era comune alle abitazioni del X. e del W., parti di un unico complesso immobiliare) e nell’abitazione del X.;
* il W. era a conoscenza di tale circostanza;
* il W. ebbe a tenere, il giorno dell’occorso, comportamento rilevantemente imprudente - fatto da ritenere acquisito sia nell’ipotesi, rispondente a realtà, in cui la vicenda si fosse svolta secondo quanto riferito dalle testi … (W. rimasto insensibile agli avvertimenti ed agli inviti), sia qualora la vicenda si fosse svolta secondo quanto riferito dal W. stesso in risposta all’interrogatorio formale (“mi trovavo all’interno della mia casa di abitazione intento a preparare la cena per me e per i miei bambini, che si trovavano nel cortile davanti alla casa”), in tal caso dovendo addebitarsi al W. di aver “lasciato che i propri figli, di pochissimi anni e privi di qualsiasi capacità di discernimento, vagassero nel giardino …, pur essendo ben a conoscenza della presenza di un cane che a volte veniva lasciato libero … Tutto ciò in evidente violazione dei doveri di custodia delle persone incapaci a lui affidate” - comportamento assolutamente negligente (“per il quale” non era stata “fornita la prova liberatoria di cui all’art. 2048 c.c.”, tale da determinare l’interruzione di qualsiasi nesso causale.
Pur ammessa la veridicità di tutte tali circostanze, l’assunto del X. secondo cui le stesse avrebbero effetto “scriminante” in suo favore è da ritenere sprovvisto di pregio.
Così come sopra annotato, il “caso fortuito” si configura in caso di intervento di un fattore esterno idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, provvisto dei caratteri della imprevedibilità, dell’inevitabilità e dell’assoluta eccezionalità, caratteri che non si riesce a cogliere nella condotta del W., quand’anche i fatti si fossero svolti secondo la versione data dalle testi … , fatta propria dall’originario convenuto/odierno appellato.
Ed invero - ammessa la veridicità di tale versione dei fatti -, era, da parte di chiunque, da ritenere del tutto prevedibile che i bambini, così come annotato dallo stesso autore della sentenza gravata, potessero condursi nei confronti dell’animale in guisa da infastidirlo e da provocare reazione alla “molestia”, il che avrebbe dovuto indurre la teste …, anziché trattenere sull’uscio il W. e i suoi figli, e limitarsi a dare avvertimenti ed a porre divieti, a farli accedere all’abitazione od a richiamare il cane, munendolo di museruola o, meglio ancora, a reimmetterlo nella sua dimora.
Tutte tali omissioni vanno a far carico a X., sia in caso di sua assenza dai luoghi, giusta l’onere di lasciare disposizioni (osservanza di cautele etc.) al temporaneo custode dell’animale, persistendo la sua ingerenza nel governo dello stesso (si veda, in ordine a tale incombenza, Cass. 17 ottobre 2002 n. 1473), sia, tanto più, in caso di sua (peraltro non riferita) presenza sui luoghi stessi.
4. Ciò posto, deve escludersi che X. abbia assolto all’onere probatorio facentegli carico, non avendo fornito la prova positiva della causazione del danno ad opera di un evento fortuito giacché, quand’anche (in mera ipotesi) la versione dell’appellato fosse quella rappresentativa della realtà, non soltanto non potrebbe - contra le “bestiali” evidenze (“attestanti” che, nonostante gli competesse la concreta gestione del controllo dell’animale, egli non fu in grado di adempiere a tale obbligo) - affermarsi che l’eventuale condotta colposa del W. si sia inserita nel rapporto causale con forza tanto “determinante” da “assorbire” l’intero rapporto causale.
5. Per ciò che attiene all’entità e qualità dei danni sofferti da Y. e K. e dai loro genitori , non è stata ribadita da X. in questa sede alcuna delle contestazioni mosse nella sede di prima istanza in punto di an (per quanto inerente ai danni asseritamente sofferti dal W. e dalla J. e dal figlio K.) e in punto di quantum.
5.1 Per ciò che attiene a tali aspetti dei danni (entità e qualità), sia con riferimento alla vicenda della piccola Y. sia con riferimento alla vicenda del piccolo K., debbono “fare testo” le risultanze delle c.t.u. cui gli stessi sono stati sottoposti.
Ed invero, l’opera (elaborati scritti) del c.t.u. (il medesimo in entrambi i casi) si connota per linearità e per compiutezza e le valutazioni dallo stesso compiute si palesano dotate di adeguato supporto motivazionale e puntualmente rispondenti alle “pretese” normative, così da dover andare esenti da qualsiasi critica.
Le lesioni sofferte dalla piccola Y. risultano avere indotto malattia con inabilità temporanea totale assoluta per giorni 40 e con inabilità temporanea parziale per ulteriori giorni 30, residuando postumi invalidanti nella misura del 15%.
Le lesioni sofferte dal piccolo K. risultano avere indotto malattia con inabilità temporanea assoluta per giorni 20 e con inabilità temporanea parziale per ulteriori giorni 40, senza residuo di postumi invalidanti.
5.2 Ai fini della determinazione dell’ “entità” dei danni (non patrimoniali), occorre tenere nella dovuta considerazione i recenti “arresti” delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione in argomento (si vedano Cass. sez. un. 11 novembre 2008 n. 26972 e le sentenze gemelle in pari data).
Ivi sono stati affermati i seguenti principi:
* Il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si distinguono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad esempio, nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato) e quelle in cui la risarcibilità del danno stesso, pur non essendo espressamente e specificamente prevista da una norma di legge, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.
* Quanto ai suoi contenuti, il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva.
* E’ pertanto scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il cd. “danno morale soggettivo”, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che una dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico e unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante.
* E’ parimenti scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il cd. “danno esistenziale”, inteso quale la perdita del fare reddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato.
5.2.1 Stando alla nuova impostazione unitaria del danno non patrimoniale dettata dalle Sezioni Unite, nessuno spazio sembra essere riservato, sul piano liquidatorio alle voci di pregiudizio “degradate”.
Peraltro, tale “degradazione”, se ben si è inteso il senso dell’ “arresto”, rileva unicamente sul piano nominale.
E’ da ritenere, invero, dato certo ed inoppugnabile che ai fini liquidatori tutti i pregiudizi devono venire in rilievo, al fine di garantire il risarcimento integrale, essendo stato ribadito che il giudice deve “procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando anche le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza".
Se pure “la parte del leone” è riservata al danno biologico, al danno biologico stesso è attribuita la “capacità di ricomprendere (con il corredo di una contabilizzazione riferita alle pieghe ripercussionali concretamente determinatesi), il pregiudizio morale e quello esistenziale:
* il primo se ed in quanto venga allegato e riscontrato quale degenerazione patologica della sofferenza, ovverosia sofferenza di natura psichica;
* il secondo … andando a comporre e a riempire la casella del biologico dinamico. In altri termini; allorché l'evento lesivo produca conseguenze pregiudizievoli sia sull'integrità psico-fisica, sia ancora sulla sfera dinamica della persona, la voce di danno da liquidarsi sarà, pur sempre, quella biologica ma con una personalizzazione doverosa, tale da coprire entrambe le faglie sofferenziali (quella biologica statica e quella biologica dinamica, ovverosia esistenziale) (dottrina - n.d.e.)”.
I citati “arresti” giurisprudenziali non determinano, dunque, una deminutio di tutela, bensì una visione prospettica di questa diversa.
Al danno biologico va riconosciuta portata tendenzialmente onnicomprensiva, così come confermato, secondo le pronunce delle Sezioni Unite, dalla definizione normativa adottata dagli articoli 138 e 139 del d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 con riferimento ai danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, da estendere ai danni (meritevoli di tutela) derivanti da qualsiasi altra fonte.
Resta il problema di individuare i criteri risarcitori cui ancorare la liquidazione del danno non patrimoniale.
5.3 In ordine ai criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, in giurisprudenza è stato costantemente affermato il principio che la stessa non possa essere compiuta se non con criteri equitativi (in quanto i danni in esame, privi delle caratteristiche della patrimonialità, non si prestano ad una precisa determinazione del loro ammontare mediante criteri obiettivi), tenendo, tuttavia, conto di tutte le particolarità e circostanze del caso concreto, in modo da garantire l’ “adeguatezza” del risarcimento alla fattispecie (si vedano, in tal senso, fra le più recenti pronunce ed ex multis, Cass. 12 maggio 2006 n. 11039; Cass. 25/08/2006 n. 18489; Cass. 11 gennaio 2007 n. 392; Cass. 29 marzo 2007 n. 7740).
In giurisprudenza è stato, inoltre, con altrettanta costanza, affermato, che, al fine di assicurare, quanto più possibile, uniformità di trattamento con riguardo a vicende della medesima natura e per evitare che la valutazione inevitabilmente equitativa del danno non patrimoniale venga ad assumere connotazioni ogni volta diverse ed imprevedibili, suscettibili di apparire arbitrarie, deve ritenersi “non improprio” liquidare le suddette specie di danno sulla base di parametri tendenzialmente uniformi, ricorrendo, per la determinazione dei relativi quanta, all’applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, quali le cosiddette “tabelle”.
Beninteso, ciò dovrà sempre avvenire al di fuori di ogni automatismo, dovendosi ognora “adeguare” il risultato dell’applicazione alla fattispecie, attuando una sorta di “personalizzazione” del danno, tenendo cioè conto delle peculiarità del caso concreto e della reale entità del danno, apportando, se del caso, correttivi in aumento o in diminuzione rispetto al quantum determinato con il metodo tabellare (si vedano, in tal senso, fra le più recenti pronunce ed ex multis, nonché quelle appena sopra citate, Cass. 3 agosto 2005 n. 16225; Cass. 12 luglio 2006 n. 15760; Sez. 3, Sentenza n. 18489 del 25/08/2006, Cass. 9 novembre 2006 n. 23918; Cass. 11 gennaio 2007 n. 392; Cass. Cass. 25 maggio 2007 n. 12247).
Si verte in una materia che non può tollerare differenziazioni di trattamento a seconda della collocazione geografica del danneggiato.
Di guisa che, fermi restando gli “adeguamenti” determinati dalle “peculiarità” del caso concreto, appare opportuno adottare, ai fini di “nostro” interesse, quale parametro base, le “tabelle” statisticamente maggiormente testate, vale a dire quelle del Tribunale di Milano.
D’altronde, tali “tabelle” sono quelle che sino ad oggi sono state normalmente applicate nel territorio di questo distretto.
5.4 E’ da ritenere acquisito - si veda l’affermazione fatta dal primo Giudice riportata nel paragrafo 1., non fatta oggetto di censura da parte di alcuno in questa fase - che sia stata data (dagli onerati W. e J.) prova certa e concreta del danno. Peraltro, in atti non si rinvengono elementi idonei a fornire i parametri plausibili di quantificazione; risultando, pertanto, consentito dare corso a liquidazione in via equitativa (si vedano, in ordine ai presupposti per fare ricorso a tale criterio di liquidazione, ex multis, Cass. 21 novembre 2006 n. 24680; Cass. 7 giugno 2007 n. 13288; Cass. 15 febbraio 2008 n. 3794).
5.4.1 Ponendo mente alla posizione della piccola Y., costei risulta avere sofferto, in ragione dell’occorso, “ferite lacero-contuse multiple al volto ed al cuoio capelluto con esiti cicatriziali inestetici da ripetuti morsi di cane; trauma contusivo all’ala sinistra del naso con frattura delle ossa proprie omolaterali e lieve stenosi respiratoria narinale residua; trauma psichico con disturbo post-traumatico dell’adattamento”; lesioni inducenti malattia di non parvo rilievo: “lenta risoluzione delle lesioni tegumentarie anche attraverso idonei trattamenti topici”, con “riduzione progressiva, ma non scomparsa, delle turbe psicologiche manifestatesi dopo il sinistro”, con “guarigione delle lesioni in circa 70 giorni” (invalidità temporanea assoluta stabilita in giorni 40, invalidità temporanea parziale in giorni 30). Quali postumi, è stato rilevato “danno estetico di discreto rilievo causato da cicatrici alla regione naso-geniena sinistra, al sopracciglio sinistro, alla regione zigomatica ed a quella retroauricolare sinistra ed al cuoio capelluto; disturbo post-traumatico dell’adattamento”, senza che sia “clinicamente prevedibile un miglioramento delle suddette sequele (a meno di un intervento di chirurgia estetica per la correzione delle cicatrici, senz’altro praticabile), né un loro aggravamento” (invalidità permanente determinata nella misura del 15%).
5.4.2 Ciò posto, il danno non patrimoniale “base” va determinato (con riferimento, quanto all’età della danneggiata, all’anno dell’occorso) secondo il calcolo che segue:
a) base del calcolo: “percentuale di invalidità” del “danneggiato” pari al 15%
b) valore del punto: Euro 2.313,10
c) valore del danno (prodotto della moltiplicazione fra il valore del punto e la “percentuale di invalidità”) : Euro 34.697,00
d) correttivo: coefficiente moltiplicatore (0,985, corrispondente all’età - anni 4 - del “danneggiato”)
e) moltiplicazione dei “fattori” sub c) e sub d) (Euro 34.697,00 per 0,985) = Euro 34.176,00 - entità del danno non patrimoniale “base”
5.4.3 Avendo riguardo al caso concreto, non vi è dubbio che si siano manifestate a carico di Y. le “due” specie (“gruppi”) di danno non patrimoniale risarcibile indicate dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione con le pronunce sopra ricordate, venendo in rilievo sia danno derivato da illecito di rilievo penale (lesioni colpose), sia danno derivato da grave vulnus inferto a diritti della persona costituzionalmente protetti.
E’ fuori di ogni dubbio - si veda la c.t.u. (che non merita, per quanto detto, censura, né è stata censurata) che la piccola Y. abbia sofferto malattia indotta dalle subite lesioni, subendo inabilità temporanea totale e parziale ed essendole derivati postumi permanenti.
Ed è, del pari, fuori di ogni dubbio che, in ragione dello stesso fatto, la piccola abbia subito sofferenza psichica (“turbe psicologiche”) di non parva entità.
Ed è, infine, fuori di ogni dubbio che, ancora in ragione di quel fatto, sia derivata significativa compromissione delle attività realizzatrici di Y., essendo stato seriamente “inciso” il sereno svolgimento della sua vita, allora e tuttora in divenire, tanto che - come annotato dal c.t.u. - a tre anni di distanza dall’accaduto era ancora presente “disturbo post-traumatico dell’adattamento” e che a carico della danneggiata, pur non essendo clinicamente prevedibile un aggravamento, neppure è prevedibile un miglioramento delle descritte sequele, pur data la praticabilità di intervento di chirurgia estetica per la correzione delle cicatrici (il cui felice esito potrebbe produrre positività su più piani, ma la cui effettuazione produrrà certamente ulteriore “sofferenza”).
Tutto questo posto, assunta a base l’entità determinata secondo il criterio “tabellare” (Euro 34.176,00) ed applicata, in forza delle considerazioni svolte, una maggiorazione del 60%, il quantum del danno non patrimoniale deve essere stabilito in Euro 55,000,00, somma attualizzata alla data di redazione della sentenza.
In favore di Y. deve essere anche liquidata somma a titolo di danno patrimoniale.
Il c.t.u. ha indicato quali spese mediche future quelle relative ad eventuale “trattamento di cicatricectomia per attenuare gli inestetismi conseguenti alle cicatrici residuate al volto ed allo scalpo”, stimando “congruo ed adeguato”, alla data del giugno 2004, il preventivo specialistico di Euro 4.750,00.
Trattasi, per il vero, di esborso soltanto ipotetico, ma, trattandosi dell’ “equivalente” della certa deminutio del “patrimonio” fisico della bimba, la suddetta somma deve essere senz’altro riconosciuta dovuta, attualizzata (alla data di redazione della sentenza) in Euro 5.750,00.
5.5 Per ciò che attiene al piccolo K., è stato diagnosticato un “trauma psichico con disturbo post-traumatico dell’adattamento”, con la precisazione di “riduzione progressiva sino a scomparsa (o a sovrapposizione con altri momenti causali “sopravvenuti ed esclusivi”), delle turbe psicologiche manifestatesi dopo il sinistro; guarigione delle lesioni in circa 60 giorni”, di cui giorni 20 si inabilità temporanea assoluta e giorni 40 di invalidità temporanea parziale.
In tal caso, la liquidazione del danno, significativo se pur non connotato da rilevante gravità, deve essere effettuata con valutazione equitativa pura.
Tenendo in conto la natura della malattia diagnosticata e la sua durata contenuta nel tempo, il quantum del danno non patrimoniale deve essere limitato a Euro 3.000,00, somma anche questa attualizzata alla data di redazione della sentenza
5.6 Per ciò che attiene al W. ed alla J., è fuori di dubbio, attesa la loro qualità genitoriale ed il diretto “vissuto” a seguito del fatto, che anch’essi abbiano subito danno in ragione dell’occorso, sia di natura non patrimoniale (sofferenza psichica di significativa entità), sia di natura patrimoniale, avendo compiuto esborsi in relazione all’accaduto, a titolo di compensi per relazioni specialistiche e c.t.p. [stando al c.t.u., “in atti risultano documenti fiscali per un importo complessivo di Euro 990,91 (circostanza incontestata, il che rende irrilevante il fatto che tali documenti non siano stati rinvenuti in atti in questa fase - n.d.e.) riferiti a prestazioni direttamente connesse con le conseguenze del sinistro”.
Il danno non patrimoniale, da calcolare - in assenza di riferimenti obiettivi diversi dalla gravità del danno sofferto da Y. e dalla significatività del danno sofferto da K. - con valutazione equitativa pura, deve essere determinato nella misura di Euro 7.500,00 per ciascun genitore, mentre il danno patrimoniale deve essere determinato in Euro 1.200,00, somme - entrambe - attualizzate alla data di redazione della sentenza.
6. Tutto questo posto, X. deve essere condannato al pagamento, in favore degli appellanti (in proprio e nella qualità), della complessiva somma di Euro 79.950,00, attualizzata alla data della sentenza, da maggiorare, nel seguito, dei soli interessi legali.
7. Le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio debbono seguire la soccombenza e, in assenza di notula, verranno liquidate secondo i valori medi recati dalla tariffa.
8. La … Assicurazione … dovrà tenere indenne l’assicurato X. da qualsiasi onere.

P.Q.M.

La Corte di Appello,
definitivamente pronunciando nella causa come sopra promossa, così provvede:
In riforma della sentenza gravata,
condanna il Sig. X. al pagamento, in favore dei Sigg.ri W. e J., in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sui figli minori Y. e K., della complessiva somma di Euro 79.950,00, ivi inclusi Euro 60.750,00 (Euro 55.000,00 danno non patrimoniale; Euro 5.750 danno patrimoniale) a titolo di risarcimento danni relativi a Y., Euro 3.000,00 (danno non patrimoniale) a titolo di risarcimento danni relativi a K., Euro 16.200,00 (Euro 7.500,00 ciascuno danno non patrimoniale; Euro 1.200,00 danno patrimoniale) a titolo di risarcimento danni relativi a W. e J.; con l’aggiunta del dovuto per interessi legali dalla data odierna al giorno del saldo;

condanna, inoltre, il Sig. X. alla refusione, in favore degli appellanti, delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio, che liquida, per il primo grado, in Euro 550,00 per spese, Euro 2.000,00 per diritti, Euro 5.000,00 per onorario e, per il secondo grado, in Euro 600,00 per spese, Euro 1.500,00 per diritti, Euro 5.000,00 per onorario; con l’aggiunta, in entrambi i casi, del dovuto per rimborso forfetario, I.V.A. e c.i.
Pone a carico del Sig. X. il costo delle c.t.u.
Dichiara .. Assicurazione … tenuta a tenere indenne da ogni onere il Sig. X..
Così deciso in Perugia il 24 novembre 2008.
Il Presidente est.
Dott. Sergio Matteini Chiari

19/11/08

Trib. Arezzo, sent. 19.11.08

Tribunale di Arezzo
Sentenza 19 novembre 2008

Udienza del 19/11/08 nella causa n.1017 /2008
Avanti al G.I. dott sono comparsi
L’Avv. Della Giovampaola e Benincasa per la ricorrente. L’Avv. Salvatore per la Telecom SpA il quale si costituisce con deposito di comparsa alla quale si riporta
I procuratori della ricorrente insistono per la concessione del provvedimento d’urgenza sussistendone i presupposti
Il Giudice
Rilevato che nel caso di specie sussiste il fumus attesa l’evidente disagio dell’utente ed allo stato la controparte non ha provato che i ritardi sono dovuti a cause non imputabili a Telecom;
che inoltre sussiste il periculum del grave ed irreparabile danno atteso che la resistente non ha specificamente contestato (e dunque le circostanze devono ritenersi come pacificamente ammesse) che nel luogo per cui è causa non vi è copertura con il cellulare: trattasi di luogo isolato e vi è copertura solo da parte della Telecom ed infine la ricorrente vive da sola;
che dette circostanze costituiscono pericolo di grave ed irreparabile danno per la persona della ricorrente se solo si pensi ad un eventuale incidente domestico o altro che rendesse indispensabile l’utilizzo del telefono per la richiesta di aiuto
P.Q.M.
ordina alla Telecom Italia S.p.A. di provvedere immediatamente e comunque nel più breve tempo possibile allo svolgimento dei lavori necessari per l’attivazione presso l’abitazione della ricorrente sita in Cortona (AR) località ***** della linea telefonica relativa al n.******* assegnato alla ricorrente e non ancora attivato.
Visto l’art.669 octies VI comma cpc condanna la Telecom a rimborsare alla ricorrente le spese del presente procedimento che liquida in complessivi €.943,00 di cui €.93,00 per spese €.400,00 per diritti ed €.450,00 per onorari oltre Iva e cap come per legge, ed il 12,5 % per rimborso delle spese in generale.
Dott. ssa Carmela Labella

12/11/08

Corte Cass. sent. 1547/08


Condominio – parcheggio – diritto – esclusione – precisazioni [art. 1102 c.c.]
Se nulla è precisato nel regolamento condominiale, è possibile usare le parti comuni per parcheggiare.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 12 novembre 2008 - 21 gennaio 2009, n. 1547

(Presidente Elefante - Relatore Malzone)

Svolgimento del processo

Con citazione regolarmente notificata C. G., proprietaria di alcuni locali al piano terra del fabbricato condominiale sito in Pisa via **** n. ****, deducendo che i condomini P. R., B. A., P. L., S. D., C. G., F. D., S. S., M. A., M. I., A. F. e A. V., erano soliti parcheggiare autoveicoli, motoveicoli, biciclette ed altri oggetti nel resède condominiale prospiciente la via di Gello e la via Cei, destinato ad uso di passo e cortile, in violazione al regolamento condominiale del 10.12.92 nella parte attinente alle modalità di parcheggio di tale area, e al più generale disposto dell'art. 1102 c.c., conveniva in giudizio costoro davanti al giudice di pace di Pisa, chiedendo che, accertata la destinazione del resède a passo o cortile, si dichiarasse l'esistenza di tale obbligo a carico dei convenuti con la conseguente condanna degli stessi al risarcimento dei danni.
Dei convenuti si costituivano in giudizio P., B., P., S., C. e F., contestando l'efficacia del regolamento condominiale indicato, perché non trascritto e non opponibile ai vari condomini e perché superato con successive delibere condominiali, e allegando la violazione da parte dell'attrice del disposto dell'art. 1103, in quanto interessata ad usufruire dello spazio dello stesso resède per esigenze del suo esercizio commerciale.
Si costituivano altresì spontaneamente in giudizio A. F. e V. i quali, trovandosi nella stessa posizione dei convenuti, asserivano di non avere mai utilizzato il resède con le modalità indicate dall'attrice.
Il Giudice di pace con sentenza n. 229/02 rigettava la domanda attrice, ritenendo inopponibile ai convenuti il regolamento condominiale richiamato in citazione, perché privo di data certa e non trascritto; riteneva che la delibera assembleare del 10.12.92, regolando il parcheggio, vietandolo a terzi estranei al condominio, consentiva implicitamente ai condomini la sosta dei propri mezzi di locomozione con l'unica limitazione di evitare la sosta davanti ai locali destinati ad attività commerciale; riteneva, però, che l'attrice non aveva provato che le autovetture lasciate in sosta dinanzi ai locali commerciali appartenessero ad alcuni dei convenuti.
Il Tribunale di Pisa con sentenza n. 447/03, depositata il 30.5.03, rigettava l'appello proposto dalla C., condannandola alle ulteriori spese del grado.
Per la cassazione della decisione ricorre la C., esponendo due motivi, cui resistono gli intimati con controricorso.

Motivi della decisione

Con i due motivi di ricorso si censura la sentenza impugnata, per violazione degli artt. 1102 e 1117 c.c. e per difetto di motivazione, per avere ritenuto che “non appare desumibile un divieto di parcheggio temporaneo dalla lettura dell'art. 1102 c.c. come interpretato costantemente”.
Si sostiene che la norma richiamata afferma il principio che ciascun condomino “può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il proprio diritto” e che, per l'interpretazione dell'art. 1117 c.c., “la naturale e necessaria funzione dei cortili è quella di dare aria e luce ai locali prospicienti di proprietà esclusiva e di consentire il libero transito per accedere ai medesimi” (Cass. n. 6673/1988); che la giurisprudenza ammette la possibilità di disciplinare l'utilizzazione di tali spazi con regole parzialmente diverse per mezzo di regolamenti condominiali e le delibere assembleari, purché vengano rispettati i limiti di cui all'art. 1102 c.c., ma la destinazione di tali spazi non può che avere unicamente la destinazione di cortile e di passo, con esclusione della possibilità di parcheggio, perché così riportato nel regolamento condominiale, accettato espressamente da alcuni condomini con la stipula del rogito di compravendita e perché così riportato nei vari atti di acquisto dei convenuti e stabilito con la delibera assembleare del 10.12.02.
Nella fattispecie in esame risulterebbe violato anche il secondo limite fissato dall'art. 1102 c.c., attinente al divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso, perché l'utilizzo di tale area in funzione di parcheggio protratto nel tempo tornava a detrimento del diritto dei condomini proprietari dei locali destinati ad attività commerciale, in quanto ne menomava il diritto di ricevere aria e luce dall'esterno e ne pregiudicava l'avvistamento dei negozi da parte dei passanti, così come riferito dai testi T. e D. e risultante dai rilievi fotografici esibiti.
I due motivi, essendo sostanzialmente connessi, possono essere esaminati congiuntamente e vanno rigettati perché sono infondati. Ed invero, la Corte di merito ha asserito, dando ragione al primo giudice, che le prove documentali e le prove testimoniali assunte non consentono di ritenere che il resède non possa essere utilizzato a parcheggio temporaneo delle autovetture dei condomini con le limitazioni previste per consentire l'accesso agli esercizi commerciali ed artigianali posti al piano terra dell'edificio condominiale, perché un tale divieto non si può ricavare dal disposto dall'art. 1102 c.c. né dal regolamento condominiale, in quanto il medesimo, oltre ad essere privo di efficace vincolante per i singoli condomini, perché non accettato nei singoli contratti di acquisto delle relative porzioni dell'immobile, nemmeno risulta trascritto, e perché il medesimo regolamento non contiene tale divieto, mentre la prova testimoniale assunta non aveva dimostrato che i convenuti condomini avessero commesso gli abusi lamentati e lasciava, viceversa, intendere che se qualche abuso era stato commesso, questo era avvenuto ad opera di qualcuno dei condomini, ivi compresi i proprietari dei locali a piano terra.
Vale allora considerare che il limite al godimento della cosa comune si identifica con riferimento alla destinazione attuale della cosa, desunto dall'uso fattone in concreto dai compartecipi, e che la realtà processuale, come espressa nella sentenza impugnata, non consente di assumere che alcuni condomini ne abbiano fatto un uso diverso rispetto agli altri condomini.
Ne consegue che la sentenza impugnata, risultando esente da censure sia in fatto sia in diritto, va confermata con il rigetto del proposto ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi euro 2.100,00, di cui euro 100,00 per spese, oltre spese generali ed oneri accessori.

11/11/08

Cassazione civile , SS.UU., sentenza 11.11.2008 n° 26972


Danno esistenziale – categoria – sussistenza – inammissibilità – danno non patrimoniale - unica categoria – legittimità – ingiustizia costituzionalmente qualifica – necessità – danno evento e danno conseguenza – danno da morte immediata – danno morale – legittimità [art. 2059 c.c.]


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 24 giugno - 11 novembre 2008, n. 26972
(Pres. Carbone - Rel. Preden)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L.A., sottoposto nel maggio del 1989 ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel giugno del 1990 in seguito ad inutili terapie antalgiche.
Nel marzo del 1992 convenne in giudizio il dott. F.S. e la U.L.S.S. n. 8 (in seguito n. 6) di Vicenza, assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.
Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all'attore la somma ulteriore di £ 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di £ 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall'assicuratore dei convenuti.
Con sentenza n. 1933/04 la corte d'appello di Venezia ha rigettato il gravame dell'A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all'integrità fisica dell'A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c. nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l'A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso F.S.
L'intimata U.L.S.S. n. 6 di Vicenza non ha svolto attività difensiva.
All'udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al ed. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l'ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.
Il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

MOTIVI DELLA DECISONE

A) Esame della questione di particolare importanza
1. L'ordinanza di rimessione n. 4712/2008 - relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l'ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame - rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l'uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale - inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell'integrità psico-fisica, e dal ed. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto - l'altro contrario.
Osserva l'ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell'art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.
A questo orientamento, prosegue l'ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del "danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.
Ricorda ancora l'ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito "esistenziale": tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l'esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perché non costituirebbe un mero patema d'animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest'ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.
L'ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.
Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l'ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.
Così riassunti i contrapposti orientamenti, l'ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto "quesiti".
1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.
2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.
3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale "tipico", nega la concepibilità del danno esistenziale.
4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell'ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.
5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.
6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.
7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il ed. danno tanatologico o da morte immediata.
8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.
2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 c.c. ("Danni non patrimoniali") secondo cui "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ".
All'epoca dell'emanazione del codice civile l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930.
La giurisprudenza, nel dare applicazione all'art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel ed. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell'animo transeunte.
2.1. L'insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione - che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo - il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Sorreggono l'affermazione i seguenti argomenti:
a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998; art. 2 1. n. 89/2001, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall'art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;
b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell'integrità psichica e fisica della persona;
c) l'estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);
d) l'esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perché in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poiché ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perché il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.
2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all'art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.
2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l'art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c.
L'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).
2.4. L'art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale. L'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.
2.5. Si tratta, in primo luogo, dell'art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato ("Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui").
2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 1. n. 117/1998: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art 29, comma 9, 1. n. 675/1996: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, d.lgs. n. 286/1998: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 1. n. 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).
2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall'art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall'origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).
Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all'immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).
2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell'ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n.8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).
Sul piano della struttura dell'illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell'interesse protetto.
Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).
2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
2.10. Nell'ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
La limitazione alla tradizionale figura del ed. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l'art. 2059 c.c. né l'art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l'effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza. al tempo di vita effettiva: n.19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005) .
Va conseguentemente affermato che, nell'ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato é risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all'ordinamento (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.
2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.
Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).
Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poiché la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell'art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, né può essere parificata, a tali fini, all'efficacia del diritto comunitario nell'ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).
2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
2.13. In tali ipotesi non emergono, nell'ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.
E' solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo negli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella "lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito", e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.
In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte costituzionale.
Le menzionate sentenze, d'altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003) , e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003) . Considerazioni che le Sezioni unite condividono.
2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.
La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell'apertura dell'art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all'interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l'ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.
3. Si pone ora la questione se, nell'ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.
3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni '90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all'epoca risarcito nell'ambito dell'art. 2043 c.c. in collegamento con l'art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell'integrità psicofisica, e dal ed. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c. in collegamento all'art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.
Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell'art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell'ambito dell'art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.
Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l'espressione "danno esistenziale"
Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona. Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perché non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all'integrità psicofisica.
3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell'art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l'alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell'ingiustizia del danno, di quale fosse l'interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l'insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all'ammissione a risarcimento.
Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull'ingiustizia del danno (per lesione dell'interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.
La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all'epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all'educazione ed all'istruzione, integrante danno-evento. La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall'accertata lesione di un interesse rilevante.
La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l'agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Né, d'altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.
In tema di danno da irragionevole durata del processo (art. 2 della legge n. 89/2001) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una "voce" del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.
Altre decisioni hanno riconosciuto, nell'ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.
Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia.
3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.
Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.
3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.
3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d'animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.
La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall'ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con la legge n. 88 del 1955), e cioè purché sussista il requisito dell'ingiustizia generica secondo l'art. 2043 c.c. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell'interesse leso.
3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purché conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (ed. danno da perdita del rapporto parentale), poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).
In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all'esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.
Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell'ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del ed. "danno estetico" che del ed. "danno alla vita di relazione"), saranno risarcibili purché siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.
Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell'illecito che, cagionando ad una persona coniugata l'impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell'altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio. Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.
3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.
Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all'interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell'alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell'interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.
La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all'evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell'ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.
Essa si risolve sostanzialmente nell'abrogazione surrettizia dell'art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perché cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento dannoso.
3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. è incentrato sull'assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.
La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purché sia leso un interesse genericamente rilevante per l'ordinamento, contraddicendo l'affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.
E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell'art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poiché la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).
3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell'art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.
Va ricordato che l'effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).
3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell'ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).
Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell'ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell'ambito del rapporto di lavoro.
Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell'ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla tutela dell'integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.
3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
In tal senso, per difetto dell'ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava "stressata" per effetto dell'istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008). [NdR Vedi BUFFONE - Diritto alla salute e danno esistenziale in Altalex]
E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l'uomo e l'animale, privo, nell'attuale assetto dell'ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n.14846/2007).
3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle ed. liti bagatellari.
Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno conseguenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.
In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell'interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l'invocabilità dell'art. 2059 c.c.
La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell'ambito dell'area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l'offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell'epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall'impossibilità di uscire di casa per l'esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest'ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all'art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).
3.11. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.
Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).
Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).
3.12. I limiti fissati dall'art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.
La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).
3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata "danno esistenziale", perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).
3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.
4. 11 danno non patrimoniale conseguente all'inadempimento delle obbligazioni, secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.
L'ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all'art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.
Per aggirare l'ostacolo, nel caso in cui oltre all'inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell'esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).
A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poiché lo riconduceva, in relazione all'azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell'art. 2059 c.c. in collegamento con l'art. 185 c.p., sicché il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.
Dalle strettoie dell'art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell'art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986) .
4.1. L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.
Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l'obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.
Se l'inadempimento dell'obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell'azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all'espediente del cumulo di azioni.
4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell'ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell'art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
L'individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell'area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).
4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i ed. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l'inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.
In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell'ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).
I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32, comma 1, Cost.), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 32, comma 2, e 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell'obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.
4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l'allievo e l'istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).
4.5. L'esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l'inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.
E' questo il caso del contratto di lavoro. L'art. 2087 c.c. ("L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l'inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.
Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa.
Nell'ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.
4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell'integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.) .
Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all'ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all'ipotesi dell'illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.
4.7. Nell'ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.
L'art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l'inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell'art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.
D'altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall'inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all'art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell'art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l'obbligazione è sorta.
Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell'art. 1229, comma 2, c.c. (E'nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).
Varranno le specifiche regole del settore circa l'onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.
4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.
Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.
Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.
Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del ed. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale. Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.
Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il ed. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.
Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).
Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come "voce" del danno biologico, che il ed. danno estetico pacificamente incorpora.
Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.
4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.
Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento". La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.
E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.
Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (artt. 138 e 139 d. lgs. n. 209/2005) richiede l'accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l'accertamento medico- legale, non solo nel caso in cui l'indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva. Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
B) Ricorso n. 734/06
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1, c.p.c, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.
Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d'appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado. Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all'epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell'atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.
Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).
2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 345, comma 1 e 2, c.p.c. nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.
La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di "vergogna" provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.
Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l'art. 345, comma 2, c.p.c, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d'ostacolo all'ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perché vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.
2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.
Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell'aspetto concernente i rapporti sessuali, allorché dipenda da una lesione dell'integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell'integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno "esistenziale" (punto 4.9).
Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva confermata dalla definizione normativa adottata dal d. lgs. n. 209/2005, recante il Codice delle assicurazioni private ("per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito"), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli "aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato".
Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13) .
Nella specie, in primo grado, l'attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell'attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l'appello, l'attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell'art. 345 c.p.c. nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.
La decisione non è corretta.
La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell'attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del "danno esistenziale" subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l'attuale ricorrente s'era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all'epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.
La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall'appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell'ambito del danno biologico.
3. All'accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d'appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.
4. La sentenza va dunque cassata.
5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d'appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all'ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero - anche in base a semplice inferenza presuntiva - che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all'eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d'ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).
6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.
7. Ricorrono i presupposti di cui all'art. 52, comma 2, del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in materia di protezione dei dati personali.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d'appello di Venezia in diversa composizione;
dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.
Roma, 24 giugno 2008
L'estensore
Il Presidente
IL CANCELLIERE
DEPOSITATA OGGI 11 NOVEMBRE 2008

Questo sito non rappresenta una testata giornalistica e viene aggiornato senza alcuna periodicità, esclusivamente sulla base della disponibilità del materiale. Pertanto, non è un prodotto editoriale sottoposto alla disciplina di cui all'art. 1, comma III della L. n. 62 del 7.03.2001. Disclaimer Informativa privacy

Informazione giuridica no profit - aggiornamento secondo disponibilità dei testi - testi di legge e sentenze privi di valore ufficiale - questo sito non presta consulenza legale on line