ARCO IUS

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18/12/07

Tribunale di Roma - Sentenza 18 dicembre 2007

Tribunale di Roma
Sezione XI Civile
Sentenza 18 dicembre 2007

REPUBBLICA ITALIANA TRIBUNALE DI ROMA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Roma, sez. XI civile, in grado di appello, in composizione monocratica, in persona della dott.ssa Lombardi Eleonora,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa n. 72827 dell'anno 2005
promossa da
TELECOM ITALIA s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, ***, presso lo studio dell'avv. *** che la rappresenta e difende, unitamente agli avv. ******, in virtù di mandato steso in calce all'atto di appello.
APPELLANTE
E
*******, elettivamente domiciliato in Roma, via *****, presso lo studio dell'avv. ****** che lo rappresenta e difende in virtù di mandato steso a margine dell'atto di citazione.
APPELLATO
OGGETTO: appello a sentenza del Giudice di Pace (spese spedizione fattura).
All'udienza del 27/4/2007, le parti precisavano le conclusioni come segue:per l'appellante: "Sentire annullare, in accoglimento dei motivi di appello sopra illustrati, la sentenza del Giudice di Pace di Roma n.42323/2004, depositata in cancelleria il 10/11/2004, non notificata, e, per l'effetto, respingere in toto le domande formulate in primo grado dal sig. *********.Con vittoria di spese di lite."
Per l'appellato: "Voglia l'Ill.mo Tribunale di Roma, espletate le necessarie formalità di rito, rigettare tutte le richieste avanzate dalla Telecom Italia s.p.a. e poste a base del proprio atto di appello per tutte le causali di cui in motivazione, qui da intendersi per integralmente riportate e trascritte e, per l'effetto, in accoglimento degli assunti della propria costituzione e risposta, confermare in toto, integralmente, la pronuncia di primo grado emessa dall'Ufficio del Giudice di Pace di Roma, sez. I, dott.ssa Franca Martorana, e depositata il 18/10/2004, di cui al nr. 42323/04 e nr. R.G. 29170/2004.
Si richiede l'espressa condanna dell'appellante alle spese, competenze ed onorari del presente giudizio, oltre Iva e Cap come per legge e la conferma assoluta della condanna della Telecom Italia s.p.a. anche rispetto al primo grado di giudizio, in ossequio alle normali regole codicistiche in tema di soccombenza."
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di appello, notificato in data 31/10/2005, la s.p.a. TELECOM ITALIA, in persona del legale rappresentante prò tempore, ha convenuto in giudizio ********* per sentire riformare la sentenza emessa dal Giudice di Pace di Roma in data 10/11/2004, con la quale era stata accolta la domanda dell'appellato di restituzione dell'indebito pari ad € 0,17, a titolo di spese di spedizione fattura, relativa al contratto di somministrazione di traffico telefonico, stipulato tra le parti. A sostegno dell'appello, la s.p.a. Telecom Italia deduceva preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del Giudice Tributario ovvero del Giudice Amministrativo;
deduceva inoltre l'improponibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione e nel merito deduceva l'assenza di violazione dell'art.21 D.P.R. 633/72 da parte della Telecom nonché l'assenza di vessatorietà dell'art. 14 delle Condizioni Generali di Abbonamento.
Si costituiva in giudizio ********, chiedendo il rigetto dell'appello, sulla base di quanto dedotto in primo grado.
La causa, sulle conclusioni come trascritte in epigrafe, veniva trattenuta in decisione all'udienza del 27/4/2007, con termini ex art 190 c.p.c. per deposito delle comparse conclusionali e delle repliche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'appello è infondato.
Sul difetto di giurisdizione.
L'eccezione va respinta in quanto l'accertamento della legittimità della ritenuta d'acconto concerne soltanto una parte minima della somma addebitata all'utente (ossia la parte relativa all'IVA), né si discute della legittimità del calcolo della base imponibile, con la conseguenza che nella specie non sussiste la giurisdizione tributaria (vedi Cass. S.U. 4896/2006; Trib. Nola 15/2/2007, che ha definito effetto indiretto la questione sopra prospettata; Giudice Pace Napoli 8/1/2007).
Né può ravvisarsi nella specie la giurisdizione amministrativa, in quanto la questione sottoposta al vaglio del giudice riguarda un diritto soggettivo, che si assume leso dalla violazione di una norma di legge (Cass. S.U.T2607/2004).
Sulla improcedibilità della domanda.
Premesso che la L. 31/7/97 n.249 (art.1, comma 11) ha istituito il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie tra utenti e soggetti autorizzati o destinatari di licenze nel campo delle telecomunicazioni, prevedendo tale incombente come condizione di proponibilità di ogni ricorso in sede giurisdizionale, si ritiene che tale disciplina non si applichi al caso di specie, in quanto, nell'ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo, la fonte del diritto alla restituzione è costituita dalla legge e non dall'accordo.
La disciplina sopra richiamata si applica infatti ai soli casi di violazione di diritto od interesse protetti da un accordo di diritto privato o da norme in materia di telecomunicazioni, laddove la fonte di tali diritti è espressamente individuata in un contratto di diritto privato (o nella normativa riguardante le telecomunicazioni). Sulla dedotta inesistenza di legge che addebita le spese di spedizione nella fattura.
Il motivo è infondato.
Ai sensi dell'art. 21, comma 8 del D.P.R. 633/72, è espressamente sancito il divieto di addebitare spese per l'emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità. Ne discende l'illegittimità dell'addebito relativo sia alla fase della emissione della fattura (redazione, annotazione nelle scritture contabili) sia alla successiva fase della consegna o spedizione della fattura stessa, che costituisce momento determinante della sua efficacia, laddove una fattura emessa e non trasmessa al debitore non assolverebbe ad alcuna funzione.
Pertanto l'addebito contestato a Telecom configura una violazione di legge da cui consegue l'illegittimità e il diritto dell'utente a conseguire la restituzione dell'importo versato.
Sul carattere vessatorio dell'art. 14 condizioni generali di abbonamento.
Premesso che detta clausola è stata approvata per iscritto, occorre precisare che nella specie si configura una violazione di norma imperativa (art. 21 D.P.R. 633/72 e successive modifiche) e pertanto la relativa clausola è inefficace ex art. 1469 bis c.c..
All'esito del giudizio l'appello va respinto e per l'effetto la sentenza del Giudice di Pace va integralmente confermata.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Roma, sez. XI civile, in composizione monocratica, in grado di appello, così provvede;
a) Rigetta l'appello e per l'effetto conferma integralmente la sentenza del Giudice di Pace di Roma del 10/11/2004;
b) condanna la s.p.a. TELECOM ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, al rimborso, in favore di ********* delle spese di giudizio, che si liquidano in complessivi € 1300,00, in difetto di notula, oltre Iva e Cap come per legge.
Così deciso in Roma, 7/12/2007 (giudice in ferie dal 3/7/2007 al 19/7/2007 ed in rumo feriale dal 6/8/2007 al 18/8/2007)
IL GIUDICE UNICO (Eleonora Lombardi)
Depositata in cancelleria il 18 dicembre 2007.

Tribunale di Roma, Sentenza 18 dicembre 2007

Telecom – spese fattura – addebitabilità – illegittimità - sussistenza [D.P.R. 633/72]

E’ vietato addebitare spese per l'emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità. Ne discende l'illegittimità dell'addebito relativo sia alla fase della emissione della fattura (redazione, annotazione nelle scritture contabili) sia alla successiva fase della consegna o spedizione della fattura stessa, che costituisce momento determinante della sua efficacia, laddove una fattura emessa e non trasmessa al debitore non assolverebbe ad alcuna funzione.

12/12/07

App. Milano Sez. I, 12/12/2007

Nelle controversie fra consumatore e professionista, il Legislatore ha stabilito la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, presumendo vessatoria anche la clausola che stabilisca un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c., se è diverso da quello del consumatore.

11/12/07

Trib. Potenza Sent., 11/12/2007

Il divieto di addebito delle spese di emissione della fattura di cui al D.P.R. 633/72 è applicabile anche alle spese di spedizione al cliente della fattura poiché la spedizione di copia della fattura alla controparte è finalizzata a garantire la corretta applicazione del procedimento di esazione del tributo e dunque il corretto ed integrale adempimento dell'obbligazione tributaria. (Fattispecie in tema di spese di spedizione della bolletta telefonica).

06/12/07

Trib. Napoli, 06/12/2007

La disposizione prevista dall'art. 1469-bis, comma 3, n. 19, c.c., oggi art. 33, comma 2, lett. u), del codice del consumo - D.Lgs. n. 206/2005, è divenuta certamente applicabile a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista ed un consumatore, qualunque ne sia l'oggetto e dunque anche al contratto di spedalità. Non vi è ragione, infatti, di differenziare l'ambito di applicazione della norma sulla base della forma o della tipologia del contratto, tenuto conto della sua formulazione letterale che contiene un richiamo del tutto generico ai contratti tra professionista e consumatore, senza attribuire alcun valore al modo con cui si è instaurato il rapporto contrattuale.

04/12/07

Giudice di Pace di Bologna, sent. 04.12.07

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL GIUDICE DI PACE DI BOLOGNA
Dr Sergio Cocchieri Della I sezione civile ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa civile al n. 8302/07 Ruolo generale promossaDA:F. Enrico, rappresentato e difeso dall’avv. G. Falzone e G. Genna, domiciliato presso il loro studio …………..
CONTRO
Wind Telecomunicazioni spa con sede in Roma, via C.G. Viola 48,
OGGETTO: cause in persona del legale rappresentante pro – tempore, convenuta relative a beni mobili contumace
OGGETTO: causa relativa a beni mobili
CONCLUSIONI DELLE PARTIPer parte attrice: “voglia l’ill.mo Giudice adito, previa ogni occorrenda declaratoria e ogni contraria istanza, eccezione, deduzione reietta, in via principale: 1) accertare e dichiarare gli inadempimenti parziali e/o totali e/o inesatti di Wind telecomunicazioni spa per i fatti in premessa e conseguentemente 2) accertare e dichiarare l’intervenuta risoluzione del contratto di servizio Adsl e/o del contratto di servizio di telefonia fissa Happy City stipulati dall’attore, per inadempimento di Wind Telecomunicazioni spa, 3) accertare e dichiarare il diritto dell’attore, per i fatti descritti in citazione, agli indennizzi previsti della Carta servizi Wind e /o il risarcimento di tutti i danni contrattuali e/o extracontrattuali, patrimoniali e non patrimoniali, anche esistenziali, cagionati da Wind Telecomunicazioni spa, e conseguentemente; 4) condannare Wind Telecomunicazioni spa, in persona del legale rappresentante pro – tempore, con sede a Roma via G. Cesare Viola 48, al pagamento in favore dell’attore, degli indennizzi previsti della Carta Servizi e/o al risarcimento di tutti i danni dal medesimo patiti, per la somma complessiva di 1500 euro, o della maggiore o minore somma che il giudice dovesse ritenere di quantificare, anche in via equitativa, con gli interessi legali dal dovuto saldo, comunque nei limiti del valore e competenza di cui all’art. 7 cpc. In ogni caso con vittoria spese,competenze e onorari, oltre spese generali, iva cpa come per legge”SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione ritualmente notificata per l’udienza del 14/5/07 l’attore esponeva che la società convenuta si era resa inadempiente per contratti di servizio che le stesso attore aveva sottoscritto con la società; chiedeva di accertare e dichiarare gli inadempimenti, la risoluzione dei contratti e la condanna degli indennizziNon essendosi costituita la società ne veniva dichiarata la contumacia. Ammessi i mezzi istruttori ed escusso l’unico teste nella udienza del 5/11/07, la causa, precisate le conclusioni, alla stessa udienza del 5/11/07, veniva trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La domanda è fondata e va accoltaVa posto in evidenza preliminarmente che si tratta di processo contumaciale per parte convenuta, né Wind ha corrisposto in sede istruttoria alla formale convocazione dell’attore per rispondere all’interrogatorio formale col proprio rappresentante legale.L’attore espone e documenta in atti quanto segue: 1) nel marzo del 2005 si accorda con Wind per l’attivazione di un servizio “internet” con tariffazione forfettaria (“libero Adsl flat”), ma dopo alcuni mesi Wind autonomamente passa al servizio ad una tariffazione “a consumo”, con conseguente aumento del prezzo del servizio. L’Attore telefona e invia fax (in atti), ma per alcuni mesi Wind invia fatture con la stessa tariffazione “a consumo” (“Adsl free”); 2) l’attore con nota in data 2/10/05 (in atti) comunica, allora, a Wind la decisione di risolvere il contratto in abbonamento Adsl e chiede le linea Adsl a favore di altro subentrante gestore telefonico; 3) Wind sospende l’erogazione del servizio Adsl, ma continua ad occupare la linea Adsl,nonostante le richieste dell’attore, impedendogli così l’utilizzo di “internet”. L’attore chiede quindi a Telecom, dal marzo 2006, un nuovo numero telefonico. 4) Nel maggio 2006 un tentativo di conciliazione, tramite Corecom Emilia Romagna (verbale in atti in data 26/5/06) non da alcun esito.Si deve rivelare che vi sono significativi profili di inosservanze contrattuali nel comportamento di Wind (che l’attore documenta), comportamenti che hanno motivato la cessazione del contratto per il servizio Adsl di cui è causa: 1) la variazione non richiesta della tariffa Adsl originariamente concordata (con conseguente aggravio di costi per l’attore); 2) la chiusura unilaterale da parte di Wind del servizio telefonico fisso “Hatty City”; 3) la “occupazione” ingiustificata della linea Adsl (che ha impedito all’attore l’utilizzo di “internet”), anche dopo la cessazione della fornitura per il servizio.L’intera vicenda contrattuale – per così dire – riguarda, quindi i due servizi Adsl e “Happy city”.Sinteticamente è accaduto quanto di seguito: per le ripetute inadempienze di Wind, specie quelle relative alle tariffe Adsl, il F. in data 2/10/05 comunicava a Wind la decisione di risolvere il contratto Adsl; Wind manteneva la “occupazione” della linea Adsl anche dopo la cessazione del servizio (cosa che ha impedito all’attore di utilizzare “internet”); solo in data 15/3/06, con nuovo numero telefonico in altro gestore, l’attore poteva avere una linea Adsl libera; in data 3/11/05 Wind cessava anche il servizio telefonico fisso “Happy City” servizio attivato il 24/5/05 con contratto annuale, secondo quanto documenta l’attore.Gli inadempimenti riferiti - e di cui l’attore produce ampia documentazione – trovano riscontro nelle norme per gli indennizzi previste dalla “Carta de servizi Wind” (in atti), ed esattamente all’art. 3.3:”nei casi di mancato rispetto dei termini di cui ai punti 2.1,2.2,2.3, (ndr.mancato rispetto dei termini di preavviso; erronea sospensione del servizio; mancato rispetto dei termini massimi di risposta ai reclami del cliente…) il cliente ha diritto ad un indennizzo di entità commisurata alla durata del disservizio e ai volumi di traffico sviluppati, fino ad un massimo di 5,16 euro ogni giorno di ritardo, e comunque non superiore complessivamente a 100 euro. Resta salvo il diritto del cliente al risarcimento dell’eventuale magior danno subito … (omissis)”; va poi aggiunto che il Garante delle telecomunicazioni, con delibera 11/05/CIR del 9/3/05 ha deciso che gli indennizzi disposti dall’art. 3.3 della Carta dei Servizi possono essere applicati anche “oltre lo sbarramento del limite massimo di 100 euro.”Tenuto conto delle inadempienze contrattuali sopra riferite si rileva: 1) i disservizi patiti dall’attore rientrano nei casi di cui ai punti 2.1, 2.2,2.3, dell’art. 3.3 della “Carta”, come più sopra descritti; 2) il tempo trascorso tra la richiesta dell’attore di correggere la tariffazione erroneamente applicata e la nota di risoluzione contrattuale dello stesso inviata a Wind per inadempimento, è di tre mesi e otto giorni ( dal 24/6/05 al 2/10/05, doc 4 e doc 16 in atti) il tempo tra la richiesta dell’attore di liberare le linea “internet” (2/10/05, nota allegata in atti) e la data in cui l’attore era costretto a cambiare il numero telefonico per avere linea Adsl libera (15/3/06, nota allegata in atti doc. 21 e 22) è stato di 5 mesi e 14 giorni, 4) Wind – senza preavviso, in data 3/11/05 – ha interrotto la fornitura del servizio telefonia fissa “Happy city” (servizio diverso da Adsl, e non indicato dal F. nella nota di risoluzione contrattuale, esclusivamente riferita al servizio Adsl) attivato il 24/5/05 (nota F. allegata in atti, doc. 5) contratto di durata annuale; ha così interrotto unilateralmente la fornitura 6 mesi e 11 giorni prima della scadenza annuale.Ritenuto equo – tenuto conto delle inadempienze, sia omissive che commissive, di Wind – utilizzare la misura di 3 euro di indennizzo per giorno di disservizio, si ottengono i seguenti indennizzi: a) per l’unilaterale erronea tariffazione del servizio internet, euro 294 (euro 3 per 98 giorni); b) per la mancata liberazione della linea Adsl, euro 492 (euro 3 per 164 giorni); c) per l’interruzione del servizio telefonico fisso “Happy City”, euro 603 (euro 3 per 201 giorni) e così per un totale di indennizzi di euro 1389.0.Questo Giudice ritiene che, nel caso, debba essere riconosciuto sussistere il danno esistenziale, che trova giustificazione nella impossibilità, per un tempo non certo breve, di utilizzare internet, per l’attore e la sua famiglia, ma anche per il fastidio delle frequenti – spesso inconcludenti – comunicazioni imposte dall’attore (fax, lettere; telefonate) per ottenere l’esecuzione corretta e la definizione conclusiva di un rapporto contrattuale. Nel caso in esame l’attore ha dovuto fronteggiare le modalità comportamentali dilatorie poste in essere da un soggetto economicamente molto forte, subdole per le modalità con le quali sono state poste in essere, ma tuttavia lesive della sfera dei diritti di libertà economica, ciò che porta – come detto – al riconoscimento del danno esistenziale, danno che questo Giudice ritiene equo determinare forfetariamente ed aggiungere all’indennizzo di euro 1389.0 come sopra determinato, così per un complessivo importo di euro 1500.La domanda attorea viene quindi accolta. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M Il Giudice di Pace di Bologna definitivamente decidendo, ogni diversa domanda, istanza, eccezione respinta:1. dichiara accettata la risoluzione dei contratti di servizio Adsl e di telefonia fissa “Happy City” tra le parti in causa;2. dichiara responsabile per gli inadempimenti contrattuali Wind Telecomunicazioni spa, con sede in Roma, convenuta contumace;3. condanna Wind telecomunicazioni spa, come sopra, in persona del legale rappresentante pro - tempore, al pagamento al sig. F. Enrico,della somma di euro 1500;4. condanna Wind telecomunicazioni spa – come sopra- parte convenuta contumace, a pagare le spese processuali che liquida complessivamente in euro 1006.3 di cui euro 97,3 per spese, euro 414 per diritti ed euro 495 per onorari; oltre spese generali, iva e cpa come per legge.
Così deciso in Bologna il 04/12/07
Il Giudice di Pace

30/11/07

Corte Costituzionale , sentenza 30.11.2007 n° 403

Autorità garante delle comunicazioni – controversie tra utenti e società erogatrici del servizio – tentativo di conciliazione – esigenze cautelari – prevalenza – sussistenza [art. 1, L. 249/1997;

In caso di controversie fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze in materia di comunicazione, la disposizione normativa che prevede il previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione, deve essere interpretata nel senso che il mancato espletamento del prescritto tentativo di conciliazione non preclude la concessione di provvedimenti cautelari.

21/11/07

GIUDICE DI PACE BOLOGNA, SENT. 21.11.07

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL GIUDICE DI PACE DI BOLOGNA AVV. FRANCO A. COSENZA
Della IV sezione civile ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa civile iscritta al N. 8301/07 Ruolo Generale promossa DA: T. S.Con gli Avv.ti G. Genna e G. Falzone con studio in Bologna Via... Attore Contro BT ITALIA SPA – CONTUMACE – CONVENUTA CONCLUSIONI PER LA PARTE ATTRICE: “Voglia il Giudice di Pace accertare e dichiarare il diritto dell’attore al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, extracontrattuali, esistenziali e/o morali, cagionati da BT Italia Spa (già Albacom Spa), e conseguentemente condannare BT Italia Spa, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore dell’attore della somma complessiva di Euro 1.900.00, di cui 150,00 per spese riallaccio della linea telefonica con Telecom, Euro 250.00 per spese legali stragiudiziali, Euro 180,00 per mancato utilizzo del sistema di allarme, o della maggiore o minore somma che il Giudice dovesse ritenere di quantificare anche in via equitativa, con interessi legali dal dovuto al saldo, comunque nei limiti di valore e competenza di cui all’art. 7 c.p.c.; in ogni caso con vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre spese legali generali, IVA e CPA, come per legge”. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato, T. S. conveniva in giudizio BT Italia Spa, in persona del suo legale rappresentante, per sentirla condannare al risarcimento di tutti i danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, extracontrattuali, esistenziali e/o morali, quantificati nella complessiva somma di € 1.900.00, o quella maggiore o minore che il Giudice riconoscerà dovuti, anche in via quantitativa, con interessi legali dal dovuto al saldo, e comunque entro i limiti della competenza per valore del giudice adito.Sosteneva l’attore T. S.: che in data 24/07/2006 egli subiva la disattivazione della linea telefonica - fax n. 051/377970, dotata di connessione Adsl ad Internet e di collegamento all’allarme della sua azienda sita in A. Emilia: che successivamente l’attore veniva a sapere che il suo numero telefonico era stato ceduto ad Albacom Spa e, successivamente, con l’avallo della Telecom, allo Studio tecnico Progettisti; che infruttuosi si sono poi rivelati i numerosi solleciti, telefonate e scritti, e persino su richiesta di Conciliazione al Corecom dell’Emilia Romagna, per ottenere la riattivazione della sua utenza telefonica: che solo dopo oltre due mesi, l’attore si vedeva riattivare la linea telefonica; che per il riallaccio della linea telefonica il Sig. T. doveva anticipare le spese necessarie per il rientro in Telecom, quantificare in € 150.00, spese legali per l’mporto di € 200.00 ed 180.00 per mancato utilizzo del sistema di allarme; che nel frattempo, per circa due mesi il Sig. T. non ha potuto ricevere ne fare telefonate dal telefono fisso, utilizzare internet, ed essere informato in caso di attivazione del sistema di allarme della sua azienda, con conseguenti disagi e stress emotivi.Non si costituiva in giudizio Bt Italia Spa, sebbene regolarmente citata in giudizio, di cui veniva dichiarata la contumacia. Ammessa prova per interrogatorio del legale rappresentante della convenuta, questi non si presentava davanti al Giudice di Pace per l’interrogatorio deferitogli, né la società BT italia spa ottemperava all’ordine del Giudice di esibire la documentazione richiesta. Veniva quindi ammessa prova per testi e sentiti i Sigg. ri Arch. M. D. e la Sig.ra W. M. L. sulle circostanze di cui all’atto di citazione. Nella stessa udienza del 03/10/2007 la difesa dell’attore precisava le conclusioni e discuteva la causa. MOTIVI DELLA DECISIONE Parte attrice ha dimostrato, con la copiosa documentazione prodotta in giudizio e con le dichiarazioni testimoniali rese dai test escussi, di aver subito danni patrimoniali, morali ed esistenziali a causa dell’ingiusto e vessatorio comportamento tenuto della società convenuta che ha costretto l’attore T. S. a ingiustificati ed inutili stress emotivi e frustrazione, senza parlare dei gravissimi disagi subiti per non aver potuto per circa due mesi ricevere e fare telefonate dal telefono fisso, utilizzare internet per usi personali e professionali, inviare mail e file e servirsi del sistema di allarme della sua azienda collegata al telefono.Oltretutto parte convenuta non si è costituita in giudizio, né il suo legale rappresentante si è presentato a rendere l’interrogatorio deferitogli, dando al Giudice la facoltà, ai sensi dell’art. 232 c.p.a., di ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio.Per quanto riguarda il danno patrimoniale, questo puo’ essere quantificato in complessivi € 580.00, e precisamente: € 150.00 per il riallaccio dell’utenza telefonica con telecom, € 250.00 per assistenza legale in fase stragiudiziale ed € 180.00 per il rimborso delle spese del sistema di allarme di cui non ha potuto usufruire. Al danno patrimoniale si deve aggiungere il danno morale ed esistenziale patito che questo giudice quantifica in via equitativa in € 1.320.00. E così per totali € 1.900.00, con interessi legali della domanda giudiziale al saldo effettivo.Le spese di causa seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Giudice di pace, definitivamente pronunciando, così decide: a) accoglie la domanda di parte attrice; b) condanna conseguentemente la convenuta BT Itali Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore dell’attore T. Sergio della complessiva somma di € 1.900.00, oltre interessi di legge della domanda giudiziale al saldo effettivo; c) condanna inoltre la convenuta BT Italia Spa a rifondere all’attore le spese di causa sostenute che si liquidano in complessivi € 1.094.66, di cui € 98.66 per spese, € 431.00 per competenze ed € 565.00 per onorari, oltre spese generali, IVA CPA come per legge.
Così deciso in Bologna il 21/11/2007.

17/11/07

Trib. Nola Sent., 17/11/2007

La legittimazione processuale degli enti esponenziali a tutela de consumatori a costituirsi parte civile va ritenuta laddove trattasi di organismi che, essendo sorti con la finalità primaria di tutela della situazione soggettiva coinvolta anche dalla vicenda penale, possono dirsi lesi nel loro diritto di personalità, nel senso che hanno subito un danno promanante in via immediata e diretta dal reato oggetto del processo all'interesse di cui sono portatori che costituisce il loro patrimonio imprescindibile.

09/11/07

App. Napoli Sez. III, 09/11/2007

L'art. 2 della legge n. 287/1990 vieta, sanzionandone la nullità ad ogni effetto, le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante. La normativa non mira a disciplinare soltanto il rapporto tra le imprese, assicurando il rispetto del libero esercizio della concorrenza e del corretto svolgimento delle regole del mercato, ma è volta altresì a tutelare i singoli consumatori, come risulta con ogni evidenza dalla lettera d) del comma 2 dell'art. citato in cui il legislatore chiarisce che sono vietate le intese di cui sopra ancheove si risolvano in attività consistenti nell'applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza. La premessa torna utile nella misura in cui evidenzia da una parte la plurioffensività del comportamento vietato e dall'altra l'interesse, non soltanto materiale, ma anche giuridico dei consumatori ovvero dei soggetti non imprenditori a far valere la violazione delle norme per la tutela della concorrenza e del mercato, al fine di sottrarsi agli effetti pregiudizievoli derivanti dall'attività illecita su loro ricadenti, previa eliminazione del maggior prezzo pagato.

08/11/07

Cass. pen. Sez. III Sent., 08/11/2007, n. 46656

In tema di immissione sul mercato di prodotti pericolosi, è configurabile il reato previsto dall'art. 112, comma primo, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (cosiddetto codice del consumo), in caso di inosservanza del provvedimento amministrativo di interdizione in commercio di determinati prodotti, purchè siano "effettivamente" pericolosi; diversamente, ove difetti tale provvedimento interdittivo, è configurabile il reato previsto dall'art. 112, comma secondo (che punisce il produttore che immette sul mercato prodotti pericolosi) in presenza di una "verosimile" pericolosità del prodotto, purchè intrinseca e desumibile da concreti elementi di fatto. (Annulla con rinvio, Trib. lib. Bolzano, 18 Giugno 2007)

Cassazione civ. Sez. III, 08/11/2007, n. 23304

Distacco ingiustificato della linea telefonica e risarcimento del danno (Cassazione 23304-2007)

Se la banca, per un disguido, non dà comunicazione al gestore telefonico dell'avvenuto pagamento di una bolletta, è questi, e non l'utente, che deve attivarsi per verificare se il pagamento sia in effettui avvenuto. E' contrario a buona fede il comportamento del gestore che, non avendo ricevuto notizia dalla banca del pagamento, effettui immediatamente il distacco della linea telefonica senza verificare se il pagamento sia stato eseguito.

Il principio dell'insindacabilità della liquidazione equitativa del danno in sede di giudizio di legittimità non trova applicazione quando nella sentenza di merito non sia stato dato conto del criterio utilizzato, la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto e la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso (Cassa con rinvio, App. Roma, 25 Novembre 2003).

Cass. civ. Sez. III Sent., 08-11-2007, n. 23304

(omissis)

Svolgimento del processo

Con sentenza 12-25 novembre 2003 la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Rieti del 14 luglio - 5 settembre 2000, condannava la TELECOM spa a pagare all'appellante C.L. la somma di Euro 309.870,41 per i danni causati dal mancato funzionamento della linea telefonica (dopo aver riconosciuto che la morosità denunciata dalla società con riferimento al primo bimestre 1995 doveva considerarsi in realtà inesistente).
Avverso tale decisione ha proposto ricorso la TELECOM con due motivi di ricorso.Resiste C. con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, cui resiste TELECOM con controricorso.

Motivi della decisione

Devono innanzi tutto essere riuniti i due ricorsi, proposti contro la medesima decisione.Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione di legge in relazione all'art. 1375 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contradditoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.I Giudici di appello avevano rigettato l'appello incidentale proposto da TELECOM precisando che la società avrebbe dovuto svolgere ulteriori accertamenti in ordine al mancato pagamento della utenza telefonica, essendosi verificato un inconveniente inusuale (consistente nella mancata comunicazione del pagamento del C. da parte della Banca). In tal modo la società non si era comportata secondo i principi di correttezza e buona fede.TELECOM, osserva in contrario la ricorrente principale, è una struttura complessa. Sarebbe stato onere dell'utente, una volta ricevuto l'avviso che non risultava pervenuto il pagamento della bolletta precedente, accertare la veridicità di tale circostanza, ponendo quindi anche la TELECOM in condizioni di poter assumere informazioni presso la banca.Il motivo è privo di fondamento.Una volta eseguito il pagamento, non si vede quale ulteriore attività avrebbe potuto o dovuto svolgere il C..Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e con-traddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.Non era mai stato dimostrato che le trattative intraprese dal C. con il commerciante coreano, K.S. avrebbero portato alla stipulazione di un contratto di società tra i due, nè che lo stesso avrebbe avuto comunque durata non inferiore a tre anni, nè infine che al C. sarebbe stata garantito il guadagno netto annuo minimo di duecento milioni.Le censure sono fondate.La liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale (Cass. n. 15676 del 2005).Secondo Cass. n. 1443 del 2003, "La liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale.Occorre pertanto che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chances, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece - anche semplicemente in considerazione dell'"id quod plerumque accidit" - connesso all'illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità.Nulla di tutto ciò è possibile rinvenire nella sentenza della Corte d'appello romana, che non svolge alcuna considerazione sul punto della elevata probabilità di perdita di sicuro guadagno da parte del C..Sotto altro, subordinato, profilo, va ricordato che la valutazione equitativa del danno non equivale, come invece sembra ritenere la Corte territoriale, a mero arbitrio.Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale l'esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al Giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità. (Cass. 8807 del 2001, 409 del 2000).Tale principio, tuttavia, può trovare applicazione solo nei casi in cui il Giudice dia conto del criterio equitativo utilizzato, la valutazione sia congruente al caso, la concreta determinazione dell'ammontare del danno non sia palesemente sproporzionata per difetto od eccesso (Cass. 13066 del 2004).Nel caso di specie la Corte territoriale non ha spiegato le ragioni per le quali, a fronte di una liquidazione del danno operata dal primo giudice in L. 20.000.000 ha ritenuto di riconoscere un risarcimento pari a trenta volte la somma originariamente liquidata, sulla base di una testimonianza "de relato" che riferisce di favolosi (possibili) guadagni perduti dal C. solo a causa del momentaneo distacco della linea telefonica.Nel caso di specie, è rimasta assolutamente sfornita di prova la affermazione secondo la quale i due commercianti avrebbero raggiunto un accordo circa la costituzione di una società (manca qualsiasi documento scritto e qualsiasi particolare sulle modalità con le quali una attività del genere, che tra l'altro necessita di particolari autorizzazioni e permessi da parte delle Autorità di Pubblica sicurezza, avrebbe dovuto essere svolta dal C. insieme con il socio coreano).Sul punto manca ogni spiegazione in proposito nella sentenza impugnata.Nella motivazione non vi è alcun accenno nè una (congrua) spiegazione delle ragioni per le quali dalla futura attività di commercio di preziosi (non meglio descritta o qualificata) sarebbe comunque derivato un guadagno netto annuo per il C. di L. 200 milioni.Il tutto, secondo la sentenza di appello, dovrebbe trovare la sua indiretta conferma nelle dichiarazioni di un teste che, all'aeroporto di (OMISSIS), incontrando "casualmente" l'aspirante socio del C., K.S., avrebbe ricevuto da quest'ultimo l'ammissione che egli non aveva voluto stringere un accordo associativo con il C. per la - unica - ragione che egli non si era dimostrato affidabile, mancando persino del danaro necessario per attivare una linea telefonica.Sarebbe stato lo stesso K.S., ha riferito il teste, ad assicurare il C. che dalla nuova attività sarebbe derivato un guadagno netto, per il solo C., di oltre L. 200 milioni annui.Di più. Nella sentenza non sono riportate le ragioni per le quali il giudice di appello ha indicato in tre anni la durata di un contratto di società, avente ad oggetto preziosi.Sul punto, con motivazione apodittica, la Corte territoriale si è limitata a invocare, inammissibilmente, il fatto notorio sotto forma dell' "id quod plerumque accidit".Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 4862 del 2005):“Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati, va inteso in senso assolutamente rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.Di conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del Giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d'analoghe controversie (Conf. Cass. n. 3160 del 1986 e 3829 del 1982).Avendo completamente ignorato le indicazioni che emergono dalle decisioni richiamate, la sentenza merita pertanto di essere cassata, in relazione alle censure accolte con il secondo motivo del ricorso principale.Il ricorso incidentale deve invece essere rigettato.Con l'unico motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 2043 c.c.) in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.In particolare, il C. censura l'entità della liquidazione del danno patrimoniale operata dai giudici di appello, con riferimento alla durata presumibile di tre anni della società che il C. avrebbe dovuto costituire con il K..Il motivo di ricorso non merita accoglimento, per le ragioni già indicate in precedenza.Secondo quanto già osservato, il giudice di rinvio dovrà stabilire, innanzi tutto se un danno patrimoniale sia stato effettivamente causato dal distacco della linea telefonica alla attività commerciale del C..Solo una volta accertata l'esistenza di tale danno, lo stesso giudice potrà procedere, eventualmente anche con liquidazione equitativa, alla determinazione dello stesso attenendosi ai rigorosi criteri già specificati.Il Giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo motivo del ricorso principale. Rigetta il ricorso incidentale.Cassa, in relazione alle censure accolte, rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione.Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2007

05/11/07

Trib. Monza Sez. II, 05/11/2007

La disposizione dettata dall'art. 1469 bis, terzo comma, n. 19, c.c., si interpreta nel senso che il legislatore, nelle controversie tra consumatore e professionista, ha stabilito la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, presumendo vessatoria la clausola che preveda una diversa località come sede del foro competente, ancorché coincidente con uno di quelli individuabili sulla base del funzionamento dei vari criteri di collegamento stabiliti dal codice di procedura civile per le controversie nascenti da contratto. Su tale presupposto il Tribunale di Monza ha respinto l’eccezione preliminare di incompetenza per territorio proposta dal convenuto.

30/10/07

App. Napoli Sez. I, 30/10/2007

La legittimazione attiva all'esercizio dell'azione prevista dall'art. 33 della legge n. 287/90 deve essere riconosciuta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Tale legittimazione, pertanto, spetta anche al consumatore, che è l'acquirente finale del prodotto offerto dal mercato e che, di fronte ad un'intesa restrittiva della concorrenza, vede eluso il suo diritto di scelta tra prodotti in concorrenza. Di conseguenza, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione "a monte" tra gli operatori del settore, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione l'azione di accertamento della nullità dell'impresa e di risarcimento del danno di cui all'art. 33 della L. n. 387/90.

19/10/07

App. Napoli Sez. I, 19/10/2007

La legittimazione attiva all'esercizio dell'azione prevista dall'art. 33 della legge n. 287 del 1990 deve essere riconosciuta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Tale legittimazione, pertanto, spetta anche al consumatore, che è l'acquirente finale del prodotto offerto dal mercato e che, di fronte ad un'intesa restrittiva della concorrenza, vede eluso il suo diritto di scelta tra prodotti in concorrenza. Di conseguenza, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione "a monte" tra gli operatori del settore, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione l'azione di accertamento della nullità dell'impresa e di risarcimento del danno di cui all'art. 33 della legge n. 287 del 1990.

16/10/07

Tribunale Roma, sentenza 7618/07 del 16/10/07

alla banca incombe l'onere di provare di aver agito con la specifica diligenza / il tipo di investimenti effettuati dagli attori non consente di ritenere che gli stessi fossero orientati verso operazioni speculative / la banca deve raccogliere informazioni circa la conoscenza del settore finanziario dei clienti nonché la loro propensione al rischio e i loro obiettivi di investimento senza possibilità di esonero per la banca / l'adeguata informazione dell'investitore è il presupposto indefettibile della liceità della esecuzione dell'ordine da parte dell'intermediario in quanto il primo, solo se edotto del rischio che l'operazione finanziaria comporta, ne assume su di sé tutte le conseguenze / la banca deve risarcire il danno subito dagli attori.

09/10/07

Trib. Bologna, 09/10/2007

In un contratto concluso tra un professionista e un consumatore, la compilazione scritta a mano della clausola relativa al foro competente non prova che la stessa sia stata oggetto di trattativa individuale. Ne consegue la nullità della clausola e l'applicazione del criterio del foro esclusivo del consumatore.

04/10/07

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE C.E., Sez. I, 04/10/2007, Procedimento C‑429/05

Credito al consumo - Diritto del consumatore di procedere contro il creditore nell’ipotesi di mancata esecuzione o di esecuzione non conforme del contratto relativo ai beni o ai servizi finanziati dal credito - Presupposti - Menzione del bene o del servizio finanziato nell’offerta di credito - Apertura di credito con possibilità di far uso del credito concesso in momenti differenti - Possibilità, per il giudice nazionale, di rilevare d’ufficio il diritto del consumatore di procedere contro il creditore - Direttiva 87/102/CEE - Dir. 98/7/CE.
Gli artt. 11 e 14 della direttiva del Consiglio 22 dicembre 1986, 87/102/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/7/CE, devono essere interpretati nel senso che ostano a che il diritto del consumatore di procedere contro il creditore, previsto dall’art. 11, n. 2, della direttiva medesima, come modificata, sia subordinato alla condizione che la previa offerta di credito rechi menzione del bene o della prestazione di servizi finanziati. Inoltre, la direttiva 87/102/ CEE, come modificata dalla direttiva 98/7/CE, dev’essere interpretata nel senso che consente al giudice nazionale di applicare d’ufficio le disposizioni che traspongono nel diritto interno il suo art. 11, n. 2.

Corte giustizia comunita' Europee Sez. I Sent., 04/10/2007, n. 429

Il diritto di agire in giudizio, di cui gode il consumatore ai sensi della Direttiva n. 87/102/CEE, non può essere subordinato alla menzione espressa del bene finanziato nel contratto di credito stipulato per l'acquisto di beni di consumo.

Trib. Bergamo Sez. III Ord., 04/10/2007

È necessario sollevare innanzi alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale al fine di chiarire se l'art. 11, comma 2 Dir. n. 87/102/CEE debba interpretarsi nel senso che l'accordo tra fornitore e finanziatore in base al quale il credito è messo esclusivamente da quel creditore a disposizione dei clienti di quel fornitore, sia presupposto necessario del diritto del consumatore di procedere contro il creditore - in caso di inadempimento del fornitore - anche quando tale diritto sia: a) solo quello di risoluzione del contratto di finanziamento; oppure b) quello di risoluzione e di conseguente restituzione delle somme pagate al finanziatore.

26/09/07

CORTE DI CASSAZIONE Sez. II Penale, 26/09/2007 (Ud.27/06/2007), Sentenza n. 35580

Occupazione abusiva di immobile IACP - Esigenza di reperire un alloggio - Stato di necessità - Configurabilità - Presupposti.
Ai fini della sussistenza dell'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 c.p., rientrano nel concetto di danno grave alla persona non solo la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell'art. 2 della Costituzione…, fra i quali deve essere ricompreso il diritto all’abitazione, in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona'. Nel caso di specie, era stata omessa dai giudici di merito qualsiasi indagine al fine di verificare sia le obiettive condizioni economiche dell’imputata, l’esigenza di tutela del figlio minore, la minaccia dell’integrità fisica degli stessi, sia gli ulteriori requisiti (necessità ed inevitabilità) per ritenere la sussistenza dell’esimente in parola. Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di merito che avevano escluso la configurabilità dell’esimente di cui all’art. 54 c.p. in relazione all’occupazione abusiva di un immobile IACP. Presidente F. Morelli, Relatore P. Zappa.

13/09/07

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Sez. II, 13/09/2007, causa C-400/06

Tagli di carne congelata e disossata di una parte del quarto anteriore di animali della specie bovina - Tariffa doganale comune - Nomenclatura combinata - Classificazione tariffaria - Sottovoce 0202 30 50.
L’allegato I del regolamento (CEE) del Consiglio 23 luglio 1987, n. 2658, relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica ed alla tariffa doganale comune, come modificato dal regolamento (CE) della Commissione 12 ottobre 1999, n. 2204, deve essere interpretato nel senso che i pezzi di carne, congelata e disossata, provenienti dal quarto anteriore del manzo rientrano nella sottovoce 0202 30 50 della nomenclatura combinata. L’allegato I del regolamento n. 2658/87, come modificato dal regolamento n. 2204/1999, deve essere interpretato nel senso che, per essere classificati nella sottovoce 0202 30 50, i pezzi di carne, congelata e disossata, del quarto anteriore del manzo non devono soddisfare altre condizioni, in particolare quella di dover provenire dallo stesso animale.

09/08/07

Corte Cass., sez. trib., sent. 17527/07


Imposte e tributi - atto e documento amministrativo - TIA (tariffa di igiene ambientale) - atto di richiesta della somma al contribuente - natura e forma pubblicistica

Gli atti con cui il gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani richiede al contribuente quanto a lui dovuto a titolo di Tariffa di Igiene Ambientale hanno natura di atti amministrativi impositivi e debbono perciò rispondere ai requisiti sostanziali propri di tali atti; in primo luogo debbono - al fine di consentire l'esercizio da parte del destinatario del diritto di difesa - enunciare - anche in forma sintetica, purché chiara - sia la fonte della richiesta sia gli elementi di fatto e di diritto che la giustificano, anche sotto il profilo quantitativo.

(La Corte prende posizione sui requisiti formali dell'atto attraverso cui viene comunicata all'obbligato la richiesta della somma, confermandone la natura pubblicistica a prescindere dalla natura privata o pubblica del soggetto esattore)


Corte di Cassazione
Sezione Tributaria
Sentenza 9 agosto 2007 n. 17526
(Omissis)


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso depositato il 30 luglio 1999, la sig.ra M.G., comproprietaria di un complesso residenziale in Mestre, composto da 35 unità immobiliari in locazione a terzi, impugnò la fattura emessa a suo carico dalla S.p.a. AMAV, relativa al pagamento della tariffa di igiene ambientale (Tia) per la raccolta dei rifiuti nell'anno 1999, deducendo che: l'atto era nullo per difetti di forma; la pretesa era illegittima nei suoi confronti, essendo tenuti al pagamento gli inquilini del condominio - agevolmente individuabili attraverso la registrazione dei contratti di locazione -; l'unità immobiliare interessata non era stata indicata così da consentire la verifica della superficie effettivamente assoggettabile alla Tia.
1.1. La Commissiona tributaria provinciale di Venezia, con sentenza n. 155 del 2000, superata l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla S.p.a. AMAV, accoglieva il ricorso, sotto il profilo che, in difetto di prova del contrario, l'obbligo del pagamento non potesse gravare su un soggetto che non occupava direttamente gli immobili.
1.2. La Commissione tributaria regionale del Veneto, con la sentenza indicata in epigrafe, superata ancora la questione di giurisdizione, accoglieva l'appello della società, avendo ritenuto la proprietaria degli appartamenti soggetta alla tassa in quanto i locali, arredati e locati per brevi periodi, andavano assimilati, quanto all'obbligo fiscale per la raccolta dei rifiuti, all'albergo o alla pensione.
2. Per la cassazione ha proposto ricorso, notificato il 3 giugno 2003, la sig.ra M.G., con tre motivi illustrati da memoria.
2.1. L'intimata, cui era subentrata, a seguito di estinzione per fusione, la S.p.a. Vesta, si è costituita con procura speciale notarile.
2.2. La Sezione tributaria, con ordinanza resa alla udienza dell'8 novembre 2004, ha disposto rinnovarsi la notifica del ricorso, e, questa eseguita, la Vesta S.p.a. si è costituita con rituale controricorso, formulando altresì ricorso incidentale, affidato ad un motivo.
2.3. La ricorrente principale ha resistito con controricorso.
2.4. All'esito della successiva udienza, la stessa Sezione, con ordinanza 13082 del 15 aprile-17 giugno 2005, riuniti i ricorsi, dopo aver respinto l'istanza della contribuente, di revoca della precedente ordinanza, ha rimesso gli atti alle Sezioni unite, in relazione alla questione di giurisdizione, sollevata col ricorso incidentale.
2.5. Le parti hanno depositato memorie ulteriori.
2.6. Con sentenza n. 4895 del giorno 8 marzo 2006 le Sezioni Unite di questa Corte, disattesa la eccezione di inammissibilità del ricorso principale, dichiaravano manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale sollevata contro l'art. 2 , comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, così come integrato dalla legge 248/2005, nella parte in cui riconduce alla giurisdizione tributaria "le controversie relative alla debenza del canone per lo smaltimento dei rifiuti urbani..." in relazione all'art. 102 e della VI disposizione transitoria della Costituzione, che vietano l'istituzione di "nuovi" giudici speciali, in quanto i "canoni" indicati nella disposizione sopravvenuta attengono tutti ad entrate che in precedenza rivestivano indiscussa natura tributaria . Per l'effetto dichiaravano la giurisdizione del giudice tributario e rimettevano la controversia avanti alla quinta sezione della Corte per la decisione degli ulteriori profili.Con memoria 23 febbraio 2007, la sig.ra M.G. depositava la sentenza 5 febbraio 2002 n. 82/27/01 della Commissione Tributaria Regionale del Veneto.


MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Si deve preliminarmente osservare che la sentenza 82/27/01 del 5 febbraio 2002 della Commissione Tributaria Regionale del Veneto non può assumere efficacia di giudicato "esterno" nel presente processo, in quanto relativa ad altre annualità di imposta (tra l'altro in cui era applicabile la TARSU e non la TIA), ed a questioni (in primis la validità dell'atto di accertamento) che non si presentano con identici profiliin relazione alle diverse annualità.
4. Occorre, dunque procedere all'esame dei tre motivi dedotti dalla ricorrente principale come di seguito riportati.
4.1. Denunciando l'art. 360 del codice di procedura civile: violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 del codice di procedura civile)", la ricorrente principale censura la sentenza, per non avere esaminato le domande ed eccezioni espressamente riproposte - e non esaminate già in primo grado, perché ritenute assorbite: in particolare, per omessa pronuncia sulla eccezione di carenza dei requisiti di trasparenza e determinatezza dell'atto impositivo.
4.2. Deducendo "art. 360, n. 5), del codice di procedura civile: violazione dell'obbligo di motivazione su un punto decisivo della controversia", la stessa si duole che l'equiparazione al gestore dì alberghi ed affittacamere, ai fini della sottoposizione alla tariffa, sia mancata in concreto di ogni verifica, possibile attraverso il ricorso ai poteri istruttori previsti nell'art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992.
4.3. Col terzo motivo di ricorso, infine ["art. 360, n. 3), del codice di procedura civile: violazione e falsa applicazione dell'art. 49 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 in materia di soggetto passivo della tariffa di igiene ambientale (Tia)"], la contribuente, denuncia l'erroneità del criterio analogico, impiegato ai fini dell'equiparazione alle attività di albergatore ed affittacamere, poiché l'art. 49 citato individua l'unico soggetto passivo del tributo nell'utilizzatore dei locali.
5.1. II Collegio ritiene fondato il primo motivo di ricorso.
Le oscillazioni della disciplina legislativa della così detta "Tassa rifiuti" ora denominata "Tariffa" suscita delicati problemi di coordinamento, in quanto le controversie relative ad un'entrata cui è stata attribuita un'apparenza privatistica vengono sottoposte al giudice tributario, che gestisce un processo costituito secondo lo schema dell'impugnazione di atti amministrativi, che contengono (o sono strumentali ad) una pretesa pecuniaria di natura pubblicistica.
Questo carattere del processo tributario emerge ad esempio dall'art. 21 del D. Legs. 546/1992 che impone al contribuente di agire in giudizio entro un termine assai breve che decorre dalla notificazione della pretesa impositiva. La brevità di questo termine si giustifica proprio con l'esigenza di attribuire stabilità al sistema delle entrale pubbliche sottraendole al maggiore margine temporale di incertezza -almeno normalmente- proprio del contenzioso fra privali; per converso qualifica anche l'atto attraverso cui la pretesa si manifesta, attribuendogli caratteri pubblicistici, e sottoponendolo ai relativi conseguenti requisiti.
Assume, in proposito, forse un rilievo minore il primo comma dell'art. 19 del D. Legs. 546/1992 dal momento che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo riconosciuto come l'elencazione contenuta in tale comma non abbia natura tassativa, o quanto meno debba essere interpolala con considerevole ampiezza (tanto da comprendervi appunto gli atti, apparentemente privatistici, con cui viene richiesta la TIA). L'art. 19 concorre dunque a delineare la natura dell'atto impugnato nel processo tributario soprattutto con il suo 2° comma in cui disciplina taluni profili formali cui deve rispondere tale atto (lasciando ovviamente aperta la questione delle conseguenze che si determinano ove tali formalità non siano rispettate). Anche simili prescrizioni costituiscono per altro un tassello delle connotazioni pubblicistiche dell'atto con cui la pretesa impositiva viene portata a conoscenza del privato.
Il giudizio circa una pubblica pretesa costituisce dunque elemento caratterizzante del contenzioso tributario (ordinanza n. 8956 del 16 aprile 2007 delle S.U.). E quando il legislatore colloca un'entrata all'interno del sistema processuale tributario, è da presumere che - in ossequio all'art. 102 della Costituzione - abbia ravvisato il carattere tributario della pretesa stessa (o comunque una stretta connessione ed assimilabilità della pretesa alla materia tributaria).
Mentre non è vero il contrario: non essendo la giurisdizione tributaria una giurisdizione costituzionalmente garantita, il legislatore può devolvere problematiche di carattere tributario (o para tributario) ad altre giurisdizione.
E' quel che è accaduto, almeno secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, con la trasformazione della TARSU in TIA; secondo le SS UU le disposizioni di "privatizzazione" della TARSU hanno infatti trasferito -in un primo momento cioè fino alla emanazione della legge 248/2005- al giudice ordinario il relativo contenzioso.
Questa circostanza non ha però determinato un mutamento nella intrinseca natura del prelievo patrimoniale imposto ai privati; ed è stato quindi possibile il "ritrasferimento" della TIA nelle competenze del giudice tributario.
Infatti l'art. 49 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (successivamente sostituito dall'art. 238 del D. Legs. 152/2006) ha bensì previsto la soppressione della tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani interni, originariamente prevista dagli artt 268 e seguenti del R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, poi modificata dall'art. 21 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, e compiutamente riordinata dal Capo III del D.Lgs. n. 507 del 15 novembre 1993. E non sembra che la "tariffa" presenti caratteri sostanziali di diversità, rilevanti ai fini che qui interessano, rispetto alla "tassa".
In primo luogo, si può constatare che fondamento dell'applicazione della tariffa non è alcun intervento o atto volontario del privato.
La tariffa deve cioè "essere applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale" .
Il citato art. 49 assoggetta dunque alla tariffa tutti i locali "esistenti nelle zone del territorio comunale"; sempre che ovviamente l'attività svolta in tali locali sia idonea a produrre rifiuti "urbani". Vi è quindi addirittura un'accentuazione del carattere pubblicistico dell'entrata: in base all'art. 270 del R.D. n. 1175/1931 (e poi dell'art. 62 del D.Lgs. 507/1993) "la tassa era dovuta [soltanto] da chi occupasse oppure conducesse locali a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui i servizi erano istituiti a norma delle disposizioni di legge vigenti in materia", tanto da rendere necessaria una specifica disciplina per sottoporre a qualche contribuzione le case coloniche ed isolate.
Presupposto del debito, non è dunque (solo) il conferimento dei rifiuti al servizio pubblico, sia pure monopolistico bensì, in primo luogo e soprattutto, "l'occupare o condurre immobili". Il conferimento dei rifiuti (e la loro quantità) concorre solo, nel sistema a determinare la partecipazione alla "quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all'entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio" (mentre il D. legs. 152/2006 impone addirittura di determinare la "tariffa" tenendo "anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali").
In realtà, anche il riferimento ai "rifiuti conferiti" si rivela -almeno quando si discorra di utenze familiari- piuttosto labile: il D.P.R. 27 aprile 1999, n. 158 ("Regolamento recante norme per la elaborazione del metodo normalizzato per definire la tariffa del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani") ha infatti consentito alle Amministrazioni comunali di applicare "un sistema presuntivo, prendendo a riferimento la produzione media comunale procapite, desumibile da tabelle che saranno predisposte annualmente sulla base dei dati elaborati dalla Sezione nazionale del Catasto dei rifiuti".
Mentre per altro verso la tariffa copre anche spese che non derivano dallo smaltimento dei rifiuti prodotti dai contribuenti ma che riguardano la collettività nel suo insieme. Così in base alla legge del 1997 la tariffa copre i costi per i servizi relativi ai rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico (l'art. 238 del D. Legs. 152/2006 prevede che "nella determinazione della tariffa è prevista la copertura anche di costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade").
Da quanto esposto emerge, ad avviso del Collegio, come l'entrata in questione abbia natura sicuramente pubblicistica, non costituendo, in senso tecnico, il corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta; e rappresentando invece una forma di finanziamento di servizio pubblico attraverso la imposizione dei relativi costi sull'area sociale che da tali costi ricava, nel suo insieme, un beneficio. Ma senza che vi sia sul piano individuale una corrispondenza costi-benefici (evidente è il parallelo con i contributi consortili).
Da simile premessa discende che l'atto attraverso cui viene comunicata al singolo la richiesta della somma che su di lui grava ha natura intrinseca di atto amministrativo; e deve rispondere ai requisiti di validità che discendono da simile qualificazione giuridica.
Né è di ostacolo a questa conclusione la natura eventualmente privatistica del soggetto che gestisce l'entrata fiscale (o para-fiscale che sia). Questa Corte ha infatti più volte affermato che le varie forme di attribuzione a soggetti privati di servizi (ed entrate) pubbliche non fanno venir meno i cardini della struttura pubblicistica dei servizi (e delle entrate) stesse; naturalmente ove tale natura pubblicistica discenda dai caratteri delle entrate e non ove esse assumano -a differenza da quanto qui accade- i caratteri propri di un prezzo. Dunque permane l'onere per il soggetto che richieda al privato di concorrere alle entrate necessarie per il funzionamento del servizio, di formulare le sue richieste attraverso atti che rispondano ai requisiti propri dell'atto amministrativo, ed in primo luogo consentano al destinatario di conoscere la natura di quanto richiesto ed il titolo che giustifica la misura della richiesta stessa.
5.2. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata con rinvio al competente giudice di merito che si atterrà al seguente principio di diritto:
"gli atti con cui il gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani richiede al contribuente quanto da lui dovuto a titolo di Tariffa di Igiene Ambientale hanno natura di atti amministrativi impositivi e debbono perciò rispondere ai requisiti sostanziali propri di tali atti; in primo luogo debbono -al fine di consentire l'esercizio da parte del destinatario del diritto alla difesa- enunciare -anche in forma sintetica, purché chiara- sia la fonte della richiesta sia gli elementi di fatto e di diritto che la giustificano, anche sotto il profilo quantitativo".
5.3. I residui motivi di ricorso risultano così assorbiti.


P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la controversia avanti ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, che deciderà anche per le spese del presente grado del procedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Sezione Tributaria il giorno 9 marzo 2007
Depositata in cancelleria il 9 agosto 2007

25/07/07

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. Un. Civ. del 25/07/2007, Sentenza n. 16412

Tributi - Procedimento di riscossione - Avviso di mora - Presupposti - Notifica dell’atto impositivo - Necessità - Cartella di pagamento - Omissione della notifica - Effetti.
Nel vigore della disciplina del procedimento di riscossione mediante ruoli anteriore al d.lgs. n. 46 del 1999, le Sezioni Unite hanno stabilito che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa. Nella predetta sequenza, l’omissione della notificazione di un atto presupposto - la cartella di pagamento - costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale - l’avviso di mora - notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli - rimanendo esposto all’eventuale successiva azione dell’amministrazione, esercitabile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto - o di impugnare cumulativamente anche quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria: con la conseguenza che spetta al giudice di merito interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell’atto consequenziale in base all’una o all’altra opzione. Inoltre, le Sezioni Unite hanno anche precisato che l’impugnazione avverso l’avviso di mora emesso dal concessionario alla riscossione, deducendo la omessa notifica della cartella di pagamento, può essere promossa dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore (allo scopo di renderlo partecipe della responsabilità della gestione del processo); di conseguenza è ammissibile il ricorso per cassazione promosso dal contribuente nei solo confronti della Amministrazione finanziaria, ancorché il concessionario fosse parte nel giudizio di merito.

24/07/07

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 24/07/2007 (Ud. 22/03/2007), Sentenza n. 16315

Totale impossibilità sopravvenuta della prestazione - Impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo - Natura - Effetti - Estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto - C.d. sinallagma funzionale - Impossibilità parziale - Natura - Effetti - Riduzione della controprestazione o al diritto al recesso - Sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione.
La totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.), che consiste in un impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, della prestazione (v. Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 22/10/1982, n. 5496; Cass., 6/2/1979, n. 794; Cass., 27/6/1978, n. 3166; Cass., 8/10/1973, n. 2532; Cass., 14/10/1970, n. 2018; Cass., 29/10/1962, n. 3076), integra infatti un fenomeno di automatica estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi degli artt. 1463 e 1256, 1° co., c.c. (v. Cass., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass., 24/4/1982, n. 548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte c.d. sinallagma funzionale), a tale stregua conseguendo la irrealizzabilità della causa concreta del con tratto (cfr. Cass., 24/4/1982, n. 2548; Casa., 15/12/1975, n. 4140; Cass., 26/3/1971, n. 882; Cass., 14/4/1959, n. 1092; Cass., 26/3/1954, n. 894). L'impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) consiste invece nel deterioramento della cosa dovuta, o più generalmente nella riduzione materiale della prestazione (cfr. Cass., 10/4/1995, n. 4119) che dà luogo ad una corrispondente riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per la parte che non abbia un apprezzabile interesse al mantenimento del contratto, laddove la prestazione residua venga a risultare incompatibile con la causa concreta del contratto (cfr. Cass., 15/12/1975, n. 4140). Diversamente da tale ipotesi, l'impossibilità di utilizzazione della prestazione non viene in realtà a sostanziarsi in un impedimento precludente l'attuazione dell'obbligazione, non presupponendone di per sé l'obiettiva ineseguibilità da parte del debitore. Pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile (cfr. Cass., 27/9/1999, n. 10690), il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo «scopo di piacere» in cui si sostanzia la «finalità turistica»), essa implica il venir meno dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del creditore. Nelle ipotesi in cui la prestazione diviene impossibile l'obbligazione si estingue per il concorso delle due cause estintive, l'impossibilità sopravvenuta della utilizzabilità della prestazione estingue invero il rapporto obbligatorio per il venir dell'interesse creditorio, e di conseguenza il contratto che dell'obbligazione costituisce la fonte per irrealizzabilità della relativa causa concreta. La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (v. peraltro ancora Cass., 2/5/2006, n. 10138) di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c. (v. Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 28/1/1995, n. 1037). Sicché, va pertanto affermato che l'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, costituisce -analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione- (autonoma) causa di estinzione dell'obbligazione (v.. Cass., 9/11/1994, n. 9304). Presidente F. Trifone, Relatore L. A. Scarano.

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 24/07/2007 (Ud. 22/03/2007), Sentenza n. 16315

Contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” c.d. “pacchetto turistico” o package (previsto dal d.lgs. n. 111/1995 ed ora trasfuso negli artt. 82 ss. d.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo) - Natura e funzione - Distinzione dai contratti di: organizzazione, intermediazione e viaggio - Elemento di qualificazione - Impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore - Effetti - Fattispecie - L. n. 1084/1977.
Nel delineare i caratteri e la funzione del contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (c.d. “pacchetto turistico” o package), distinguendolo dal contratto di organizzazione (artt. 5 ss.) o di intermediazione (art. 17 ss.) di viaggio (CCV) di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1970 (resa esecutiva con L. 27 dicembre 1977, n. 1084), e nel porre in rilievo che la causa concreta assume rilievo, oltre che come elemento di qualificazione, anche relativamente alla sorte del contratto, quale criterio di relativo adeguamento. Pertanto, l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale (art. 1463 c.c.) o parziale (art. 1464 c.c.) impossibilità di esecuzione della medesima. In specie, l'epidemia di dengue emorragico costituisce infatti evento determinante non già il deterioramento o la riduzione della prestazione (v. Cass., 17/7/1987, n. 6299) bensì il venir meno del normale standard di sicurezza sanitaria del luogo di esecuzione della prestazione turistica. Fattispecie: scioglimento del contratto di package avente ad oggetto un viaggio vacanza di due settimane per due persone a Cuba, essendo ivi in atto un’epidemia di dengue emorragico, sicchè i turisti, in accordo con l’agenzia di viaggi, avevano optato per diversa destinazione, nonché di rigetto della domanda di pagamento dell’indennità per il recesso formulata dal tour operator. Presidente F. Trifone, Relatore L. A. Scarano.

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 24/07/2007 (Ud. 22/03/2007), Sentenza n. 16315

Contratti viaggi vacanze “tutto compreso” - C.d. “pacchetto turistico o package” (previsto dal d.lgs. n. 111/1995 ed ora trasfuso negli artt. 82 ss. d.lgs. n. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo) - Causa concreta - Finalità turistica o scopo di piacere - Irrealizzabilità per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione - Risoluzione - Art. 1174 c.c..
Nel contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (c.d. “pacchetto turistico” o package), caratterizzato dalla prefissata combinazione di almeno due degli elementi costituiti dal trasporto, dall’alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa di tale contratto, con durata superiore alle 24 ore ovvero estendentesi per un periodo di tempo comportante almeno una notte, la "finalità turistica" (o "scopo di piacere") non costituisce un irrilevante motivo ma si sostanzia nell’interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa concreta. Ne consegue che la irrealizzabilità di tale finalità per sopravvenuto evento non imputabile alle parti determina, stante il venir meno dell’elemento funzionale dell’obbligazione costituito dall’interesse creditorio (art. 1174 c.c.), l’estinzione del contratto per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, con esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni. Presidente F. Trifone, Relatore L. A. Scarano.

18/07/07

Tribunale di Roma, sentenza 10006/07 del 18/5/07

Bond argentina
In nessun caso gli intermediari sono esonerati dall'obbligo di valutare l'adeguatezza dell'obbligazione disposta dai clienti, neanche nel caso il cliente si sia rifiutato di fornire informazioni sulla propria situazione finanziaria / la conoscenza degli strumenti finanziari e dei mercati (rapportata alla tipologia di risparmiatore) non può far venir meno gli obblighi di diligenza posti a carico della banca / la Banca è condannata al risarcimento dei danni subiti dagli attori.

04/07/07

Tribunale di Roma, sentenza 13720/07 del 4/7/07

se il profilo di rischio dell'attore e quello del titolo non collidono, l'operazione non è adeguata / la banca deve informare in modo chiaro sulla tipologia del titolo venduto senza usare clausole di stile inidonee ad informare il cliente sulla rischiosità dei titoli / la banca è condannata al risarcimento danni oltre alla rivalutazione secondo gli indici ISTAT.

02/07/07

CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 02/07/2007, Sentenza n. 14972

Arbitrato rituale o irrituale - Interpretazione del compromesso - In dubbio pro arbitrato rituale.
Costituendo l’arbitrato irrituale un istituto atipico, derogatorio dell’istituto tipico regolato dalla legge e sfornito delle garanzie previste dal legislatore, deve ritenersi che, in mancanza di una volontà derogatoria chiaramente desumibile dal compromesso o dalla clausola compromissoria, il riferimento delle parti alla soluzione di determinate controversie mediante arbitrato normalmente costituisce espressione della volontà di fare riferimento all’arbitrato rituale, ossia all’istituto tipico regolato dal codice di procedura civile.

26/06/07

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. Un. Civ. del 26/06/2007, Sentenza n. 14712

Titoli di credito - Incasso di assegni non trasferibili a persone diverse dai beneficiari dei titoli - Responsabilità della banca negoziatrice - Natura - Termine di prescrizione (Ordinaria decennale).
Ha natura contrattuale la responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dal primo comma dell’art. 43 legge assegni. Tale responsabilità tutela tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno: prima di tutti il prenditore, ma eventualmente anche colui che ha apposto sul titolo la clausola di non trasferibilità, o colui che abbia visto in tal modo indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattaria (o emittente), nonché, se del caso, questa stessa banca. Di qui la conseguenza che a tale azione di responsabilità si applica la prescrizione ordinaria decennale, e non quella quinquennale, propria della responsabilità extracontrattuale.

15/06/07

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. Un. Civ. del 15/06/2007 Sentenza n. 13979

Titoli di credito - Buoni postali - Condizioni riportate sui titoli - Prevalenza sulle prescrizioni ministeriali.
La discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e le indicazioni riportate sui buoni postali offerti in sottoscrizione ai richiedenti deve essere risolta dando la prevalenza alle seconde. L’accordo negoziale ha ad oggetto il contenuto enunciato dai buoni, anche quando in precedenza, con decreto ministeriale, siano state modificate le relative condizioni.

14/06/07

Cass. civ. Sez. III Sent., 14/06/2007, n. 13967

Il soggetto che stipula un contratto come persona fisica che agisce per scopi relativi alla attività di agente di un'impresa di assicurazioni non può assumere la veste di consumatore ai sensi dell'art. 1469-bis cod. civ. (Rigetta, App. Torino, 20 Novembre 2002)

08/06/07

Cass. civ. Sez. III Sent., 08/06/2007, n. 13377

In tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della "tutela forte" di cui alla disciplina degli articoli 1469 bis e segg. cod. civ., nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge 21 dicembre 1999 n. 526, la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche, quindi non alle società, e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice "consumatore" soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività. Infatti, deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizzi il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del "professionista" non è pertanto necessario che il contratto sia posto in essere nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, essendo sufficiente - come si evince dalla parola "quadro", di cui al secondo comma dell'articolo 1469 bis cod. civ. - che esso venga posto in essere per uno scopo connesso all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale. (Nella specie, la corte di merito aveva ritenuto il contratto di "leasing", tra una s.p. finanziaria ed una s.a.s. venditrice di giocattoli concluso tra professionisti, e la S.C., poiché oggetto del rapporto erano gli arredi del negozio destinati all'esposizione della merce, ha rigettato il ricorso della locatrice che invocava in suo favore le norme degli articoli 1469 bis e seguente cod. civ.). (Rigetta, App. Firenze, 28 Febbraio 2003)

05/06/07

CORTE DI CASSAZIONE Civile Sez. III, 05/06/2007, Sentenza n. 13083

Oggetto del contratto - Attività professionale dell’acquirente - Contratto di fornitura di banche dati giuridiche - Foro del consumatore - Esclusione - Artt. 1469 bis e segg. c.c..
Non si applica la disciplina più favorevole al consumatore di cui agli artt. 1469 bis e segg. c.c. al contratto di fornitura di banche dati giuridiche, concluso da un consulente legale con il gestore delle banche dati, in quanto l’oggetto del contratto è inerente all'attività professionale dell’acquirente.

16/05/07

Trib. Nola, sent. 16.05.07

TRIBUNALE DI NOLA
II SEZIONE CIVILE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Nola in composizione monocratica nella persona del giudice istruttore dott. Francesco Notaro, ha pronunciato, la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n.8855 del registro generale per gli affari contenziosi dell’anno 2006, avente ad oggetto appello avverso la sentenza n.2154/06, depositata il 20.7.2006, notificata il 3.10.2006, del giudice di pace di Nola, relativa a domanda di ripetizione somme, vertente
TRA
Telecom Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t. giusta procura speciale per notar M. B. di Milano, rep. 70175 del 22.2.2006, rappresentato e difeso dall’avv. … in forza di procura stesa a margine dell’atto di citazione in appello ed elett.nte dom.to presso lo studio dell’avv. … , in Nola, via … -APPELLANTE-
E
Tizia, rappresentata e difesa dagli avv. … giusta procura a margine dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado ed elett.nte dom.ta presso il loro studio in Nola, via … -APPELLATA-
Conclusioni
All’udienza del 6.3.2007 le parti concludevano riportandosi ai propri rispettivi atti, come da conclusioni rese nel relativo verbale da intendersi qui integralmente trascritte.
.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’andamento del giudizio di primo grado è così riassunto nel provvedimento impugnato: “Con atto di citazione regolarmente notificato il 20.2.2006, (Tizia ) conveniva in giudizio (la Telecom Italia s.p.a.) per ottenere il rimborso di quanto versato quale contributo di spese di spedizione dal 19.7.1996 al 15.10.2002 (n.40 fatture) emesse dalla società convenuta Telecom relative all’utenza telefonica contraddistinta dal numero 081 823xxxx di cui l’attrice è titolare in via …. Nola. Deduceva che tale somma per un totale di euro 14,80 non è dovuta stante il dettato dell’art.21 d.p.r. 633/1972 che stabilisce che “le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo”... Pertanto chiedeva condannare la convenuta al pagamento di euro 14,80 per le somme indebitamente richieste e versate, oltre il risarcimento del danno da valutarsi ex art.1226 c.c. per violazione degli obblighi previsti dall’art.1175 c.c e dall’art. 2 legge n.281 del ’98. La società convenuta si costituiva con comparsa di costituzione e risposta, chiedendo il rigetto della domanda in quanto infondata in fatto e in diritto, eccependo in via pregiudiziale dichiararsi il difetto di giurisdizione dell’adito giudice in favore della giurisdizione tributaria e in via preliminare l’improcedibilità della domanda per omesso tentativo obbligatorio di conciliazione ex artt 3 e 4 della delibera n.182/02 CONS emessa dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni…””.
Il giudice di pace adito, istruita la causa mediante produzione di documenti, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva la domanda e per l’effetto condannava la società convenuta al pagamento della somma di euro14,80 in favore di parte attrice, oltre interessi dalla domanda al soddisfo e spese della procedura liquidate in dispositivo, con attribuzione al procuratore antistatario.
Con atto di citazione notificato a Tizia in data 13.10.2006, la Telecom Italia s.p.a. in persona del legale rappresentante p.t. proponeva appello avverso la predetta sentenza, lamentando, 1) l’erroneità del rigetto dell’eccezione di improcedibilità della domanda per l’omesso esperimento del tentativo di conciliazione, avendo il giudice rilevato che la controversia non atteneva a diritti derivanti da accordi di diritto privato o da norme in materia di telecomunicazioni, sicché non rientrava in quelle per le quali è necessario il previo tentativo di conciliazione; che per contro questo andava esperito, secondo il disposto di legge, per ogni controversia nascente dal contratto di abbonamento telefonico; che rientravano in detta previsione tutte le questioni relative alle modalità o ai costi della prestazione erogata, o per le quali l’utente lamentava un disservizio; si doleva, inoltre 2), nel merito, dell’accoglimento della domanda, osservando che le spese di “spedizione”, a mente dell’art.21 comma 8 legge iva, non potevano ritenersi rientrare in quelle di “emissione” della fattura; che, infatti, emettere una fattura non significava spedirla, costituendo questa la manifestazione di una attività ulteriore che segue quella di emissione; che così si erano espresse anche le Commissioni tributarie, nonché numerose “risoluzioni ministeriali”; che tale interpretazione era suffragata da quanto dettato dall’art.53 d.p.r. n.523 del 1984, che prevede l’addebito delle spese di spedizione a carico del destinatario, salva la possibilità di ritiro presso le sedi della società senza addebito; che, del resto, ciò era confermato ed in sintonia con il principio generale di cui all’art.1196 c.c. secondo il quale le spese collegate la pagamento sono a carico del debitore; 3) evidenziava, altresì, che in virtù dell’art.14 delle condizioni generali di abbonamento, le spese erano poste a carico dell’utente e che tale clausola era perfettamente valida, non avendo il citato art.21 comma 8, carattere imperativo, giacché non è posto a tutela di un interesse pubblico, né a protezione di fini fondamentali del nostro ordinamento, né la sua violazione essendo sanzionata dalla nullità; 4) lamentava l’erroneità della decisione per essere il giudice di prima istanza incorso in vizio di ultrapetizione, avendo dichiarato la nullità o invalidità della clausola di cui al citato art.14 c.g.a. in assenza di esplicita domanda al riguardo; evidenziava, inoltre, che la clausola era valida e non in contrasto con quanto dettato dagli artt.1341 e 1469 bis e ss. c.c.; si doleva, infine, del fatto che il giudice aveva condannato essa società alla restituzione invocata, in assenza di prova del versamento; chiedeva, pertanto, in accoglimento del proposto appello, che venisse annullata e/o revocata la sentenza impugnata, con vittoria di spese e competenze del doppio grado di giudizio.
Si costituiva la convenuta, la quale resisteva diffusamente ai motivi di gravame, sostenendo, altresì, la vessatorietà della clausola contenuta all’art.14 delle condizioni generali di abbonamento e chiedeva il rigetto dell’appello, con conseguente conferma della sentenza impugnata, vinte le spese del grado, da attribuirsi al procuratore per dichiarato anticipo.
All’udienza del 6.3.2007 la causa veniva trattenuta in decisione previa concessione dei termini ex art.190 c.p.c. in misura ridotta (gg 20 + gg 10)
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Infondato è il primo motivo di appello di carattere pregiudiziale riguardante l’asserita improcedibilità della domanda ex art. 1 comma 11 della legge 31 luglio 1997, n. 249, istitutiva dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Infatti questo testualmente dispone che “L'Autorità disciplina con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro. Per le predette controversie, individuate con provvedimenti dell’Autorità, non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione da ultimare entro trenta giorni dalla proposizione dell’istanza all’Autorità. A tal fine, i termini per agire in sede giurisdizionale sono sospesi fino alla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di conciliazione.”.
La disposizione in parola, pur introducendo una condizione di procedibilità della domanda, rinvia, per l’individuazione dell’ambito di operatività e delle modalità di svolgimento del tentativo di composizione stragiudiziale, alla disciplina secondaria, da emanarsi ad opera della stessa Autorità.
Con delibera del Consiglio dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni n. 182/02/CONS del 19 giugno 2002, recante “Adozione del regolamento concernente la risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni ed utenti”, all’allegato A viene affidata la risoluzione stragiudiziale delle controversie agli istituendi sportelli di conciliazione presso i Comitati regionali per le comunicazioni (Co.Re.Com) , previsti dall’art. 2, Allegato A della Delibera n. 53/99 del 28 aprile 1999; nello specifico l’art. 5 n. 2 lett. D) del regolamento del 2002 cit., trasferisce ai Corecom funzioni istruttorie nelle seguenti materie previste dalla Legge 249/97: controversie in tema di interconnessione e accesso alle infrastrutture di telecomunicazioni, di cui all'art. 1, comma 6, lett. a) n. 9; controversie tra ente gestore del servizio di telecomunicazioni e utenti privati, di cui all'art. 1, comma 6, lett. a) n. 10.
Solo nelle controversie de quibus è espressamente prevista la condizione di procedibilità invocata dall’odierna società appellante.
Nulla autorizza – stante la natura della norma, la quale, influendo sulla tutela concreta dei diritti, non può che essere insuscettibile di interpretazioni analogiche – a ritenere assoggettate al tentativo obbligatorio di conciliazione tutte le controversie in cui sia parte un esercente l’attività di telecomunicazioni, ovvero ogni controversia che deriva, comunque, dal rapporto instaurato per effetto del contratto di abbonamento.
Peraltro, la stessa delibera n. 182/2002 nel prevedere che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione sia effettuata presso i Co.Re.Com. la subordina alla data di effettivo esercizio delle funzioni delegate (art.1, comma 3), di tal che la previsione di legge non può ritenersi vincolante di fronte alla concreta impossibilità di attivare il tentativo di conciliazione per mancata istituzione nella Regione di residenza del cliente dell’organo competente al suo espletamento, circostanza pacificamente non contraddetta dalla difesa di parte appellante.
Infondato è anche il motivo di appello riguardante l’asserita inapplicabilità del disposto di cui all’art.21 comma 8 d.p.r. n.633 del 1972 alle spese sopportate per la “spedizione” della bolletta, in quanto non rientranti in quelle di “emissione” alle quali soltanto farebbe riferimento la norma appena richiamata.
Ciò posto, la disposizione sopra richiamata prevede che “Le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità non possono formare oggetto di addebito a qualsiasi titolo”.
Ad avviso di questo tribunale (vds. sempre trib Nola 13.7.2006, g.i. Bellini), la formulazione testuale della norma è tale da abbracciare ogni attività, collegata agli obblighi di fatturazione, ritenuta essenziale per il completamento del procedimento di applicazione del tributo.
Questa si compone, in primo luogo, della compilazione del documento, cioè della sua materiale redazione in due esemplari, recanti l’indicazione della prestazione effettuata, del costo, della misura dell’imposta applicata, delle parti del rapporto, della data; successivamente vi è l’annotazione, che consiste nella registrazione nei libri contabili dell’emittente, con attribuzione di numerazione progressiva, ai sensi dell’art. 23 dello stesso d.p.r., da effettuarsi nei quindici giorni successivi alla compilazione; infine, nella trasmissione di una delle due copie redatte al soggetto che ha beneficiato della prestazione, mediante la sua consegna o spedizione.
Tutti i ‘passaggi’ appena richiamati, proprio secondo il tenore letterale del comma 8 dell’art. 21 cit., assumono rilevanza ai fini del completamento della procedura di emissione, sicché la disposizione in parola si riferisce a tutte le fasi anzidette, vietando che i loro costi siano addebitati al cliente.
La fase della spedizione è strettamente connessa alla materiale redazione della fattura, come è dato ricavare dal comma 1, ultimo periodo dell’art.21 d.p.r. cit., il quale ha previsto che “La fattura si ha per emessa al momento della sua consegna o spedizione all’altra parte…”.
Sul punto si è, infatti, rimarcata la natura recettizia della spedizione della fattura, con la conseguenza che questa è efficace solo nel momento in cui una delle due copie entra effettivamente nella sfera del beneficiario del bene o servizio, acquisendo definitivamente la sua validità ai fini del prelievo fiscale, anche e proprio in ragione della piena corrispondenza tra la copia in possesso dell’emittente e quella ‘trasmessa’ all’altra parte (sempre trib. Nola 13.7.2006 ha avuto modo di segnalare come “…il divieto di addebito al cliente, di cui al richiamato comma 8 dell’art. 21 DPR 633/1972, non può che comprendere anche i costi di spedizione della fattura di cui qui si discute”, giacché ““La spedizione di copia della fattura alla controparte, infatti, è finalizzata a garantire la corretta applicazione del procedimento di esazione del tributo, e dunque il corretto ed integrale adempimento dell’obbligazione tributaria, sicché va qualificato “adempimento conseguente” intrinsecamente connesso alla emissione, nel senso che integra e perfeziona il relativo procedimento, sicché i suoi costi devono gravare sul soggetto tenuto alla fatturazione, non sul consumatore finale””).
Una simile interpretazione, in via risolutiva, è suffragata dall’analisi comparativa tra l’originaria formulazione della norma e quella risultante a seguito dell’emanazione del d.p.r. n.687 del 1974.
In quella sede, infatti, venne introdotto il comma 8, che ha, appunto, previsto il divieto di addebitare al cliente, “a qualsiasi titolo”, le spese di emissione della fattura e dei conseguenti adempimenti e formalità.
La norma ovviamente, già da un punto di vista testuale, non può che essere letta in combinazione con gli ulteriori commi di cui si compone, posto che, il comma 1 prevede che “…la fattura si ha per emessa all’atto della sua consegna o spedizione all’altra parte, ovvero all’atto della sua trasmissione per via elettronica…”, mentre al comma 4 viene disposto che “…la fattura in formato cartaceo è compilata in duplice esemplare di cui uno consegnato o spedito all’altra parte…”.
In origine non era stato previsto che la fattura si riteneva emessa solo con la consegna o spedizione”, ma, per contro, si distingueva – come ancora vorrebbe parte appellante – la fase della emissione, da quella della spedizione, che non erano, pertanto, ‘contestuali’, sebbene andassero completate entrambe nel termine di trenta giorni.
La stessa norma segnava significativamente tale scissione anche da un punto di vista letterale, posto che la materiale redazione del documento veniva definita testualmente “emissione”, cui seguiva poi la trasmissione nella sfera di disponibilità della controparte.
Nella successiva formulazione, la norma non parla più di emissione, ma di ‘mera’ “compilazione” materiale del documento; elimina la ‘frattura temporale’ tra la sua redazione e la successiva spedizione e ‘chiude il cerchio’, prevedendo espressamente che l’emissione – costituendo l’attività di confezionamento del documento, quale materiale “compilazione”, attività di carattere preparatorio – coincide con il momento in cui la fattura viene ricevuta dal beneficiario della prestazione o del servizio
Di tal che non si vede come si possa sostenere che le spese sopportate per la materiale consegna al cliente – che può certamente avvenire con sistemi alternativi rispetto all’inoltro a mezzo posta, ma che non ne mutano per questo la sostanza –, non rientrino nel divieto di cui al successivo comma 8, sol che si consideri che tutte le modifiche appena segnalate sono avvenute nel medesimo contesto, palesando, per stessa volontà del legislatore, il sillogismo tra ‘attrazione’ della fase della consegna, in quella dell’emissione, con conseguente applicazione, senza particolari mediazioni interpretative, delle relative spese nel ‘nuovo’ divieto di cui al comma 8 che chiude l’intera disposizione (sicché, diversamente da quanto opina parte appellante, è proprio il legislatore ad aver previsto espressamente che le spese di spedizione attengono a quelle di emissione).
Ciò comporta che deve essere analizzato l’ulteriore motivo di impugnazione che si incentra sulla insussistenza, nella specie ed in relazione all’art.14 delle condizioni generali di abbonamento predisposte da Telecom Italia s.p.a., di ipotesi di vessatorietà della clausola.
Logicamente antecedente a tale verifica si pone però l’analisi relativa alla natura della disposizione di cui al cit. art.21, atteso che, se questa contempla un’ipotesi di nullità delle clausole che eventualmente prevedano l’addebito della spese di emissione della fattura, neppure si pone il problema del sindacato circa la loro vessatorietà.
Sul punto, l’appellante formula espressa censura riguardo alla ritenuta imperatività della norma, da parte del giudice di prima istanza, dolendosi anche dell’asserita sussistenza del vizio di ultra petizione, giacché, a suo dire, il giudice di pace avrebbe dichiarato la nullità della clausola di cui all’art.14 c.g.a. Telecom, vizio in realtà insussistente in ragione del fatto che, correttamente (sotto tale profilo), il primo giudice ha valutato la validità della clausola ai fini dell’accoglimento o meno della domanda di ripetizione.
Fatta questa premessa, va ricordato che l’art.1418 c.c. differenzia le ipotesi di nullità contemplate dai commi 2 e 3, dalla cd. nullità virtuale, di cui al 1° comma, scaturente dalla contrarietà del contratto (o della clausola) a norme imperative.
E’ noto che il carattere imperativo di una norma si ricava dalla natura pubblicistica degli interessi tutelati dovendo tendere alla protezione di fini fondamentali dell’ordinamento.
Nel caso in esame, la disposizione di cui all’art.21 cit. si connette ad un interesse di natura tributaria ed è principio più volte rimarcato dalla giurisprudenza di legittimità, che le norme tributarie non abbiano valenza imperativa.
Nello specifico, poi, della clausola in questione, è di tutta evidenza l’assenza di un interesse generale dello stato rispetto al soggetto sul quale le spese di emissione della fattura (con l’invio che ne completa l’iter) debbano ricadere.
Ne’ può ritenersi che la norma sarebbe volta alla protezione del consumatore.
Invero, a prescindere dal fatto che tale profilo consumeristico sarebbe oramai affidato all’accertamento dei presupposti che inducano a ravvisare un’ipotesi di vessatorietà della clausola, neppure potrebbe prospettarsi che, risalendo la norma ad epoca antecedente all’emanazione della disciplina relativa alla tutela del consumatore, questa avrebbe inteso anticipare tale tipo di tutela nella specifica materia regolata dal citato d.p.r., sol che si pensi – prescindendo dal rilievo circa l’eccentricità della sede prescelta rispetto alle supposte ragioni consumeristiche – che l’addebito delle spese in parola riguarda anche soggetti svolgenti attività imprenditoriale, per i quali non si pone in alcun modo la necessità di un tale tipo di protezione, soggetti per i quali è stata esplicitamente esclusa l’applicabilità degli artt.1469 bis e ss. c.c., laddove agiscano nella veste di ‘fruitori’ della prestazione.
Inoltre, come è stato osservato dalla giurisprudenza di merito, sarebbe oltremodo incongruo trarre l’assolutezza del divieto ed il carattere imperativo della disposizione in parola – che pure si caratterizza per la ‘nettezza’ dal punto di vista semantico, della formulazione del divieto –, quando in epoca successiva e sempre in altro testo normativo (d.p.r.523/84), è stata prevista altrettanto esplicitamente la possibilità di addebito delle spese di spedizione, al destinatario della fattura.
Sul punto, peraltro, soccorre lo stesso criterio interpretativo che si è inteso adottare in riferimento all’accertamento che ci ha portati ad optare per la ricomprensione delle spese di spedizione nell’ambito ‘generale’ di quelle relative alla emissione della fattura.
Invero, in quella sede si è rimarcata la necessità che il comma 8 dell’art.21 d.p.r. 633 del 1972 fosse interpretato in combinazione con le ulteriori previsioni di cui si compone la norma stessa.
Analogo criterio, sebbene riferito all’analisi del testo nella sua integralità ed in particolare in combinazione con il precedente art.18, come è stato acutamente rilevato in giurisprudenza (vds. trib Torre Annunziata, sent. 19.1.2007, g.i. Chiesi), porta ad escludere la natura imperativa della disposizione e, pertanto, la sanzione della nullità della clausola di addebito delle spese di spedizione al cliente.
Infatti, in tema di rivalsa “e dunque sempre avuto riguardo al rapporto di carattere privatistico tra cedente e cessionario”, il menzionato art. 18, al suo comma 4, prevede che ““è nullo ogni patto contrario alle disposizioni dei commi precedenti””, sicché, seguendo un’interpretazione logico sistematica, deve opinarsi che, laddove il legislatore, in quel testo di legge, ha inteso far discendere delle conseguenze sanzionatorie riguardo alle pattuizioni intercorse tra i soggetti da cui scaturisce l’imposizione tributaria, lo ha fatto in maniera testuale.
Si potrebbe sostenere che, nella specie, non rileverebbe né il comma 1, né il comma 3 dell’art.1418 c.c., ma la nullità dovrebbe essere tratta dal comma 2, dovendo ritenersi che, in ragione della già rimarcata assolutezza letterale del divieto di cui al comma 8 dell’art.21 (le spese non possono essere addebitate “a qualsiasi titolo”), l’oggetto della clausola avrebbe stimato giuridicamente impossibile, di tal che non dovrebbe essere esplicitamente formulata la sanzione della nullità.
In realtà, ad avviso del tribunale, la risposta la si ricava dalle stesse argomentazioni che precedono.
La giuridica impossibilità dell’oggetto – idi est la presenza di un divieto tale da escludere che un determinato oggetto possa entrare a far parte di un regolamento negoziale – non può che discendere, secondo quelle che sono le ragioni che inducono a presidiare la tutela di un determinato interesse con la sanzione più grave prevista dall’ordinamento, dalla forza del divieto.
Sicché si torna, comunque, al punto di partenza, dovendo ribadirsi, dall’analisi sistematica che si è cercato di compiere, che, sotto alcun profilo, l’addebito delle spese in questione coinvolgono interessi di natura pubblicistica tali da non poter essere derogati dalla diversa volontà delle parti.
Risolta la questione relativa alla possibilità di derogare all’art.21 comma 8 d.p.r. cit., residua la verifica circa la vessatorietà della clausola.
Questa non necessitava di specifica approvazione ai sensi dell’art.1341 c.c., non rientrando tra le ipotesi tassative disciplinate dalla richiamata disposizione.
Sotto altro profilo, parimenti, non può che osservarsi che la detta pattuizione non rientra in alcuna delle ipotesi definite abusive (ed ora nuovamente vessatorie, secondo la terminologia propria della nostra tradizione giuridica) dalle disposizioni di legge (artt.1469 bis c.c. ed ora artt.33 e ss. d.lgs. n.206 del 2005); né vessatoria in concreto, per la ridottissima rilevanza degli importi addebitati in relazione alla caratteristica della prestazione, non determinando alcun significativo squilibrio nell’economia del contratto (né si comprende come ciò altererebbe il contratto da un punto di vista “normativo”; peraltro il contenuto della clausola sarebbe riproduttivo di disposizioni di carattere, appunto, normativo, sebbene non di fonte primaria, quali ad esempio il già cit.d.p.r. n.523 del 1984; vds. anche il d.m. 197/’97).
Infine si osserva che alcuna specifica questione è stata posta in relazione alla possibilità di conoscenza della clausola de qua, da stimarsi, pertanto, perfettamente conosciuta dal contraente debole.
Pertanto, va accolto tale motivo di appello e conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata e previo annullamento della stessa, rigettata la domanda proposta dall’odierno appellante, attore in primo grado.
La natura della controversia, valutata in relazione alla complessive difese delle parti e ai motivi di accoglimento, induce all’integrale compensazione delle spese del doppio grado del giudizio.
P.Q.M.
Il tribunale di Nola in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dalla Telecom Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., nei confronti di Tizia , avverso la sentenza del giudice di pace indicata in epigrafe, ogni altro motivo rigettato, così provvede:
a) accoglie l’appello in relazione al motivo di impugnazione rubricato nella parte deputata allo svolgimento del processo al n.3 e per l’effetto annulla la sentenza di primo grado, conseguentemente rigettando la domanda avanzata da Tizia in quella sede;
b) compensa integralmente le spese del doppio grado di giudizio tra le parti.
Nola, così deciso il 16 maggio 2007
Il Giudice
Dott. Francesco Notaro

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